Le tradizioni di Africo antica: il rito del sapone di casa

Reggio Calabria Attualità

C’è un rito antico ad Africo, ed è quello del sapone fatto in casa. Farlo nell'antichità richiedeva una certa esperienza, perché non era facile lavorare e dosare bene la potassa (soda caustica), ingrediente essenziale per far solidificare il sapone e l’acqua occorrente, le dosi di solito erano un chilogrammo di soda e cinque litri di olio.

Proprio l’olio era uno elemento essenziale che le vecchie famiglie estrapolavano dai residui delle frittura o dal fondo dei recipienti in pietra in cui era conservato. Proprio in uno di questi orci si raccoglievano i residui, ma anche nelle giarre, dove restavano i (murghi).

Al momento in cui si faceva il sapone partecipava non solo la famiglia, ma anche comari e donne del vicinato. Il segreto era mescolare sempre e controllare il fuoco per regolare la cottura. Prima di iniziare il procedimento, era abitudine diffusa “benedire” con formule di rito, allo stesso modo del pane, anche il composto che si andava a trasformare in sapone. Si tracciava il segno della croce e si buttava un pugno di sale marino dentro il fusto o la cardara, pronunciando la seguente frase: “Patri figghiu e spiritu santu ‘u poti crisciri n’attru tantu!”. Appena il contenuto cominciava a bollire si iniziava a versare piano piano la potassa, precedentemente sciolta in acqua fredda rimescolando di continuo con il bastone.

Questa erogazione, sapientemente dosata, doveva avvenire ad intervalli regolari e stando bene attenti a quando il liquido cominciava a rapprendere, altrimenti la massa per eccesso di soda si sdillacciava, cioè non coagulava bene. Potevano essere aggiunte delle essenze, chiaramente naturali, come bergamotti, limoni o arance. Mescolando continuamente avveniva la magia: la miscela iniziava a schiarire, passando dal marroncino al bianco panna, (quando il procedimento andava bene).

Un colore non proprio chiaro non era comunque sinonimo di cattiva riuscita: il suo dovere di sbiancare e fare schiuma il sapone lo avrebbe fatto lo stesso, anche se più scuro. Si capiva che il sapone era pronto quando, mettendo il mestolo o il manico di scopa in legno al centro del composto, questi restava dritto e non scivolava di lato. Significava che la consistenza era quella giusta e assicurava una buona saponificazione. Se non era ancora solido, si lasciava riposare per altro tempo prima di tagliarlo, ma se capitava che non quagliava voleva dire che qualcosa era andato storto e quindi andava rifatto (stornatu).

Una volta tagliato a pezzi non restava altro che farlo asciugare fino a che diventava secco e leggero. Asciugando, di solito si formava una patina di scaglie di soda luccicante, ma sul prodotto stagionato non faceva più male toccarla, perché non più caustica. Sul finire degli anni ‘50, grazie anche all’avvento delle lavatrici, l’usanza di fare il sapone in casa, come quella del bucato a mano, gradualmente è scomparsa. Questa consuetudine era dettata dal bisogno e dalla necessità del risparmio, e oggi un altro retaggio della classe contadina sta per morire. Sopravvive forse solo in poche famiglie, aggrappate caparbiamente agli usi e ai costumi della nostra tradizione aspromontana.

Il sapone era essenziale per lavare i panni e fare ‘a vucata. La donna faceva prima il prelavaggio a mano col sapuni i casa e, successivamente, faceva il bucato. Si utilizzava una cesta di vimini dalla forma arrotondata, situata sopra a dei mattoni o a delle pietre pulite, dove la biancheria, già insaponata e leggermente sfregata e torciuta con le mani, veniva sistemata seguendo la forma concentrica della cofina.

La parte finale, più larga, della superficie della cesta e i panni in essa contenuti venivano poi ricoperti da un telo di tessuto forte, detto cinnerali, ricavato da un vecchio lenzuolo o tessuto a mano in modo doppio, fatto di canapa o di cotone pesante; sopra il cinnerali veniva posto uno strato di cenere di 10 cm circa rigorosamente cernuta, cioè passata al setaccio, e a questo punto, sul tutto, veniva versata l’acqua bollente. L’ultimo panno serviva da filtro a quest’acqua che impregnava quelli sottostanti.

Il liquido, che scolava dal fondo della cesta, era chiamato in dialetto liscìja, cioè la lisciva, e possedeva capacità detergenti elevate. Per questo era prezioso. Con cura veniva poi raccolto e messo da parte per lavare i capi in lana e i panni colorati e delicati, ma anche per fare altri lavaggi come stoviglie, pavimenti, oggetti vari. La massaia con il primo liquido che usciva, essendo più sporco, lavava gli stracci.

Col successivo, più chiaro, lavava i panni colorati e le maglie di lana, che poi sciacquava alla maniera della biancheria; puliva e disinfettava i letti, spesso invasi dai parassiti e, a dosaggi diluiti, puliva persino i capelli, per renderli lucenti e morbidi.