Don Edoardo, l’ultima festa mariana del presunto Prete Padrino


Non uno si trova in giro che gli abbia pubblicamente espresso solidarietà, pietà e ‘misericordia’. Neanche un confratello, nemmeno il padre arcivescovo. Tutti chiusi nel più stretto riserbo. Quasi facendo finta di niente, come se nulla fosse accaduto mentre nel gregge, tra le pecorelle smarrite, c’è chi segnala sconcerto e sbandamento, sdegno e veemenza nei suoi nemici, ma anche stupore, sostegno e sofferenza tra tantissimi fedeli che lo hanno seguito, lo hanno guardato, lo hanno creduto uomo di unica e pulita fede, ora in difficolta nel più triste frangente della sua vita consacrata. Dal silenzio all’omertà dei sentimenti, magari anche indotta, riflessa e per certi versi imposta dalle convenzioni del quieto vivere di fronte alla forza e alla ‘legittima violenza’ della Legge e dello Stato, i gradi di separazione si accorciano e si sfumano improvvisamente. Per cui adesso Don Edoardo, il prete in abito di ‘Parrino’, che i giudici della Direzione Distrettuale Antimafia della Procura della Repubblica del Tribunale di Catanzaro, hanno accusato a chiare lettere come ‘Padrino’, cuore e cervello, stratega spirituale e materiale di una rete di ‘ndrangheta che in uno ha legato per diversi decenni, mafia territoriale, apparati e apparanti dello Stato, sistema politico elettorale e chiesa locale, è di fatto un cane paria, un appestato, un intoccabile, un sacerdote gettato in terra di nessuno, nel suo umano e personale deserto di dolore e solitudine. Sospeso tra la tragica cella del carcere in cui è rinchiuso e il ricordo della sagrestia della sua avita parrocchia in cui sospirava preci e litanie, rasentando lo Stige infernale di un infinito purgatorio di leggi e aule di giustizia.


Vito Barresi | Cambio Quotidiano Social


Ma di questa incombente e serpeggiante ‘omertà dei sentimenti’, una specie di fastidio e ritrosia a manifestare apertamente il proprio pensiero e convincimento, l’intera comunità ecclesiale della Parrocchia di “S. Maria Assunta o ad Nives” (della neve) di Isola Capo Rizzuto, tra i fedeli che venerano ogni anno la tanto amata Madonna Greca, è a dir poco zeppa.

Anzi, si può affermare imbibita fino al limite di qualche prossimo straripamento, aperto e plateale. La gran parte dei parrocchiani, in un modo o nell’altro, con sottili distinguo o grossolane apologie, difende don Scordio. E lo scagiona moralmente dalle pesanti catene linguistiche, lessicali, narrative allestite per un complesso, articolato e vasto procedimento giudiziario, frutto di un impegnativo lavoro di ingegneria penale, fatto di sinergie e coerenze (ci penserà la difesa a trovare spigolosamente le aporie e i punti critici di questo trattato della 'non contraddittorietà') in ogni parte della sua struttura.

Per cui da un lato c’è un testo narrativo, una grande 'narrazione' della 'ndrangheta della Calabria mediana, accompagnata da un dispositivo normativo che inchioda spietatamente la parte criminale, la consorteria dedicata al sacrificio costante e continuato della bacinella e al rituale avido e raccapricciante della locupletazione, mentre dall'altro si vedono le macerie destrutturate e smantellate di un esercito mafioso, piuttosto spesso scoordinato e affannato, che determina marasma e disordine sociale, confusione e paura nel cuore dei fedeli che vedono seppellire il sacro sotto una montagna di meschini interessi economici.

L’accusa al presunto prete padrino è di quelle da far tremare i polsi. Non vanno per il sottile i giudici antimafia quando lo descrivono come “organizzatore della consorteria, ruolo eseguito gestendo la Misericordia di Isola Capo Rizzuto, ente gestore dei servizi resi al centro di Accoglienza dei migranti di Sant’Anna che ha consentito la ‘locupletazione’ (parola bella e rara, che sono in pochi a conoscere e in ancor meno a usare, locupletare significa arricchire, e denota questo significato a partire dall'immagine più atavica della ricchezza, cioè la terra, scrivono su una parola al giorno.it) di immense risorse distratte in favore della ‘bacinella’ della cosca”, ed in aggiunta, colui che dalle virtù teologali era passato all’ideazione e all’orditura del “gruppo economico cui convogliare e far distrarre (per oltre un decennio) ingente denaro pubblico perpetrata dal prete in ragione anche della sua figura istituzionale”.

Dal confessionale della Parrocchia, dove l'arredo sacro per il momento, non sembra essere stato infarcito di pulci, al servizio del grande orecchio, l’Echelon dell’antimafia calabrese, provvisto di una totale copertura dello spazio telefonico e ambientale della regione, si percepiscono e registrano i primi labili sospiri, qualche segnale debole e titubante di chi sottovoce rimugina pensiero ‘...io difendo don Edoardo ma non lo posso dire, non lo posso gridare sui tetti come nella parabola del Vangelo, per paura di essere tacciato, additato, accusato e stigmatizzato come fiancheggiatore, collaboratore…ecc… ecc…, sono tutte invidie, maldicenze, ha dato lavoro ai disoccupati, anche a quelli che magari si sarebbero altrimenti affiliati alla 'ndrangheta..., non è che ha fatto il parroco in Svezia... ma in Calabria dove ogni famiglia ha quasi sempre qualche inconfessabile legame con l'ambiente...”

Quasi accartocciati su se stessi, per proteggersi dal potentissimo volume di fuoco scaricato dall'attacco mediatico sulla già 'sconsata' coesione di un piccolo comune agro-turistico del sud (se ne sta parlando ovunque nel mondo, anche la Merkel pare abbia dichiarato su qualche rete televisiva che l'Unione Europea vorrebbe sapere come siano stati così facilmente erogati e bancati tanti lauti assegni tutti legalmente coperti, da parte delle preposte autorità statali di pagamento, alla criminalità), a Isola non c’è stata solidarietà aperta, presa di posizione in difesa del prete accusato. Se non quella degli avvocati in ‘house’.

Stranamente è mancata la solita reazione da parte dei nobili garantisti giornalisti a gettone. Eppure c'è già chi parla di delusione e superficialità dell'Inchiesta Johnny, cominciando a spigolare su quel che potrebbe anche sembrare all’occhio di pars destruenda, in partibus infidelium, una sorta di ‘teorema’ ai danni di un sacerdote, chiedendosi da dove potrà ricominciare la risalita di un prete in odor di ‘ndrangheta. Forse per 'Don Scordio Liprando', prete e simoniaco, ci vorrebbe un giudizio di Dio, un'ordalia, qualche prova misteriosa, superiore e divina, un miracolo della Madonna Greca?

Isola è un paese a dir poco strano, anzi particolarista e particolare. Non me ne vogliano i cittadini di questo straordinario giacimento di umanità, storia e bellezze naturali se scrivo, che esso potrebbe ben ambire a essere un prototipo, un ideal tipo, un caso di schizofrenia sociale nelle mani della psicologia junghiana e degli studi storici e sociali sull’inconscio collettivo.

O se si vuole un paese reale e surreale, legale e illegale, santo e criminale, sacro e profano insieme. Passeggiando per le sue belle contrade di campagna, il classico latifondo cerealicolo poi trasformato irruentemente in sghembi campi di colture orticole, con le sue masserie abbandonate di tufo e pietre affascinanti, per la matericità del loro racconto, in mezzo agli uliveti distrutti dalla furia della fame, della miseria e dell’abbandono, come la famosa Pidocchiella, mi chiedo dove si trovi un luogo nel mondo in cui nascono e crescono parallelamente raffinatissimi teologi e vescovi, intellettuali di livello e di eccellenza rara, gente che scrive con competenza internazionale del cardinale inglese Newman come del tridentino Sant’Anselmo d’Aosta, e poi con loro, accanto, infra e in mezzo ci siano le menti più crudeli e scaltre del crimine ‘ndranghetistico, annidato tra la Misericordia, il Consiglio pastorale, le taxi cab dove si collegano i fili delle intercettazioni spesso in sgangherate utilitarie a secco di benzina, i vari bar del paese e i campeggi per gli avulsi turisti che vanno da Uccialì per vedere Le Castella.

Perché le Feste, si discuteva negli anni Settanta. Senza i problemi dello Stato che stava a guardare le ‘ndrine e i sequestri di persona come fossero delle arcaiche installazioni che aveva lasciato in mezzo alle montagne il Brigantaggio. E’ ancora questa una festa dei poveri, un’espressione della pietà popolare e della devozione mariana, o soltanto un fumo negli occhi, un passerella d’antiquariato religioso per coprire i loschi interessi delle cosche che “introitavano le somme così distratte al fine di versarle in parte alla c.d. “bacinella” della cosca e comunque locupletarle per interessi egoistici e diversi dalla loro destinazione pubblica”?

Questo maggio è stato non solo il mese dell’arresto del prete presunto padrino ma anche quello della sua ultima festa mariana, popolare. Don Edoardo ha lanciato un appello alla concordia, per essere più uniti, volersi più bene e fidarsi di più gli uni gli altri. E come per premonizione ha detto che “concludere la festa è una cosa triste poiché si ricomincia a lavorare. Bisogna però ricominciare con uno spirito nuovo che ponga in risalto l’unità e la solidarietà sperimentata in questi giorni”. Vicino a lui, come sempre, c’era il suo pupillo, Leonardo Sacco, Governatore della Misericordia. E dall’altra il quadro della Madonna. La stessa immaginetta che serba sul pagliericcio della cella come unico conforto che gli è rimasto in mano.