LUCIANA TABARRONI CARAVELLI. Una donna tra arte e vita nella Bologna del Novecento

Magari scritto in belle lettere di bodoniana calligrafia, uno schietto "vissi d'arte, vissi d'amore” ci starebbe davvero a piombo, apposto come timbro e bollo imperituro per riconoscenza e memoria, in un metaforico cartiglio di Luciana Tabarroni Caravelli. Ragazza bolognese allieva di Roberto Longhi, donna studiosa di letteratura e arti figurative, personalità emiliana a intera denominazione d’origine controllata. Quel che si dice a volte un genio femminile della classe 1923, andata via nel 1991 ma non prima di aver lasciato alla sua amata città ben 1948 incisioni di maestri dell'arte del '900, che compongono il fondo artistico a lei intitolato, un patrimonio di grande pregio e di valore straordinario che fa del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe della Pinacoteca di Bologna, un vero e proprio luogo di culto e d'eccellenza per chi ama e studia la più prestigiosa grafica d’arte e non solo del cosiddetto Secolo Breve. “Una collezionista cantastorie molto affascinata dalla cultura mitteleuropea, dalla magia boema, dalle saghe e dalle leggende dei popoli nordici, dal mistero dei romanzi gotici”, disse di lei con parole innamorate e affettuose suo marito Alberto Caravelli, intervistato anni addietro da Marialivia Brunelli. Donna che fu pellegrina in un’Europa di muri spessi di ideologia e cemento, viaggiando incessantemente in città e luoghi, snodi mitologici dell’arte e della bellezza, sempre in attesa di una pista giusta per raggiungere gallerie e collezionisti tra Francia, Belgio, Svizzera, Svezia, Germania, e poi gli stati dell'Est e l'Italia. La Tabarroni sapeva bene cosa, come e dove cercare le opere che ora compongono questa collezione unica, esposta fino al 25 aprile 2016 a Palazzo Pepoli Campogrande, via Castiglione 7, con il titolo Percorsi di Segni. Raccolta dedicata alla grafica europea del Novecento a partire dal 1953. Suddivisa per nazioni, la collezione si propone come una mappa cognitiva ‘colorata’ da importanti pittori che con alcune loro opere contribuiscono al disegno dei lineamenti e dell’evoluzione di un’estetica moderna, una progredita e contemporanea concezione della grafica e del segno significante. Per cui non si può che rimanere stupiti dal formidabile spessore culturale che promana l’impegno e la dedizione alla causa testimoniata da questa bolognese illustre che meriterebbe a se stante un film (chissà, magari potrebbe pensarci il maestro Pupi Avati…) Lei stessa in una sorta di selfie intellettuale ante litteram si ritrasse come una monomaniaca, insofferente di tutto ciò che di banale quotidiano poteva distrarla e fargli scioccamente perdere un tempo prezioso; una fissata racchiusa in un mondo perfetto e che raramente trovava immediata comunicazione con il resto dell’umanità, con la quale, peraltro, non aveva poi gran voglia di far lega e tantomeno di farla partecipe delle sue riposte sensazioni. A tal punto da farla apparire inappropriatamente come una snob, scostante e chiusa nel suo aristocratico riserbo, dietro le lenti dei suoi occhiali sempre e avveniristicamente vintage.


In breve la Tabarroni Caravelli fu una collezionista di professione che ben sapeva di essere un’isolata, guardata per lo più con una certa diffidenza, considerata una stravagante che aveva denaro e tempo da perdere.

Adolescenza e giovinezza passate in una bellissima villa in stile liberty in via Audinot, la casa paterna di un importante costruttore, collezionista di pittura dell’Ottocento bolognese che fu il luogo degli affetti e delle care memorie, dove lei, insieme al fratello, trascorse un’infanzia felice. La chiamava ‘la reggia’. Poi venuti meno i genitori quella villa di diciannove stanze si era fatta troppo grande e così avvenne il trasloco in un appartamento in centro, con un arredamento minimale, dove buttate giù alcune tramezze e tappezzate tutte le pareti di libri, venne fuori un ambiente di grande calore, dall’aspetto un pò cistercense, il posto per lei adatto per studiare, su una semplice tavola laccata posta su due cavalletti.

Luciana arricchì la sua casa di una collezione in cui facevano coro Manet, Pissarro, Hodler, Kandinsky, Chagall, Man Ray, Magritte, Corneille, Appel, Klee, Giacometti, Matta, Alechinsky, Delvaux, Rops, Larsson, Brauner e Tobey, Degas, Braque, van Gogh, ToulouseLautrec, Munch, Cézanne.

Alla radice della collezione di Luciana Tabarroni Caravelli c’è sempre l’intento e la filosofia, un telos volto a “ricomporre l’infranto”, riassemblare vite perdute, frammenti di esistenze, tale da non ritenerla mai un patrimonio meramente personale e privato ma, al contrario, da consapevole e attenta collezionista, come vera eredità, in lavoro e propri investimenti, destinata a un museo statale. Volontà adempiuta da Alberto Caravelli, che consegnò al Ministero ad un prezzo molto vantaggioso, quasi un terzo dell'effettivo valore ciò che nel 2002 la soprintendente Jadranka Bentini ebbe a valutare come “la più grossa collezione di grafica di quel secolo che sia stata acquisita da un museo”.

Il sogno di Luciana era quello di ricostruire una “storia dell’Europa a fumetti”, una sorta di carta geografica che adesso non c’è più, di un mondo allo stesso tempo in declino e in evoluzione, profondamente lacerato nell’essenza stessa del suo tessuto psichico ancestrale, in eterna e sempre vitale lotta tra passato e presente, conflitto ed evoluzione, dialettica e armonia. Ricostruire cioè, attraverso la grafica del Novecento, la storia delle nazioni europee.

Probabilmente con i suoi amati ‘matitini colorati’ che custodiva in una piccola scatola bianca: “era la sua collezione più segreta, più intima. Colorati mozziconi di matite, lunghi come un pollice e appuntiti con cura. Lei li chiamava i “matitini”: erano i preziosi alleati di Luciana Tabarroni nelle sue lunghe notti di studio, strumenti fondamentali per riempire quaderni e quaderni di appunti con quella sua calligrafia minuta e ordinata. Li teneva tutti, perché ognuno aveva partecipato alla straordinaria avventura delle sue ricerche, vivendo attraverso le sue mani momenti di esaltazione ad ogni nuova scoperta, in quell’intima, solitaria conversazione con i fogli di grafica che, ogni giorno, iniziava alle tre del pomeriggio e finiva a tarda notte."