Lettera a Martina Levato. Una donna condannata che ha il dovere di essere madre

20 agosto 2015, 11:43 100inWeb | di Vito Barresi

di Vito Barresi

Può la Legge, una Corte di Giustizia, negare il diritto alla maternità, anche se potrebbe essere imperfetta, respinta o inibita nelle sue espressioni primarie, potenzialmente dissociata, impacciata, smarrita, insomma vissuta sotto il segno della lettera scarlatta, ad una donna che ha commesso un crimine orribile e per questo giustamente condannata a 14 anni di carcere? Può una carcerata avere il diritto, ritrovare la forza di una Madre Coraggio, capace di essere giusta e umana nei confronti del proprio figlio?

Il caso di Martina e del suo bambino Achille apre una diffusa e vasta riflessione sull’ereditarietà della colpa che incombe su un nascituro ignaro, biologicamente oltre che giuridicamente, immune e non gravato da alcuna delle responsabilità, imputate alla madre, rea di aver infranto la legge, condannata a scontare una pena, il cui fine è quello principale della "punizione" ma anche l’altro non secondario di ristabilire, attraverso la riabilitazione psicologica e sociale, una diversa prospettiva per la persona che ha commesso il crimine.

Scriveva il Verga, lasciando il suo Sud per stabilirsi al Nord, la sua novella dedicata ad una peccatrice e una capinera, che tutti gli abissi hanno funeste attrazioni, e quelle voragini che ingoiano la giovinezza, il cuore, l’onore, si maledicono facilmente. E come la sua Eva anche Martina è segnata irrimediabilmente, forse ancor di più dello stesso acido con cui ha attentato alla vita di un uomo, colui che fu nella scuola di ragazzi capace di entrar dentro il suo vissuto.

Delicata, fragile, alquanto pallida, di quel pallore che anche sull’incarnato un po’ olivastro e calabrese lascia intravedere dalle vene sulle tempie, l’impressionante tensione psichica e nervosa, il mento più spostato, gli occhi grandi che si sporgono in un vuoto di notti in cella, adesso Martina è affacciata, sospesa e in bilico, sul desiderio di una meravigliosa avventura che si chiama maternità. Certo, l’identificazione della madre col figlio potrà anche essere anormale. Tutta la complessità insita nel caso di Martina, la psicologia sconquassata di una donna madre che ha compiuto un delitto, sta in quel figlio che ha messo al mondo, parte di se stessa, soggetto e oggetto su cui riversare il proprio amore narciso e altruista. Nonostante la cronaca nera tesa nel cordone ombelicale che lega il piccolo non solo a Martina ma anche al padre Alex, davanti alla cella materna, Achille è come se avesse issato un grande cartello indicatore, col suo bel faccino, potrebbe segnare la svolta dalla strada del crimine, aiutare a cancellare il peccato, a sublimare il delitto compiuto, a scacciare via e per sempre il demone della vendetta che con violenza inaudita ha posseduta e annientata la Levato.

Dettagli di una personalità, minata, vulnerata. Episodi di violenza sessuale in cui Martina ricorda di essere stata dopo lo stupro al centro antiviolenze della Mangiagalli. Di avere interrotto le cure dopo alcuni colloqui terapeutici. Poi il ritorno in Calabria, a Verzino, un’estate di qualche anno fa, tentò il suicidio. La portano al pronto soccorso, non accetta di curarsi, mette la firma per andarsene, giura che andrà da uno psicologo.

A Milano torna nel suo inferno di una relazione morbosa e maledetta come sul set di un film pulp. La scena finale, parossistica e orrida, è sgradevole, sul confine della pornografia criminale. Racconterà agli psichiatri di San Vittore i fatti sconvolgenti. E i medici tracceranno il report come una mappa di un cuore infartuato, usando parole scavate per dire che ‘non si evidenziavano stati psicotici floridi’, colpiti dal ‘tono di voce e dall'atteggiamento che depongono per uno stato di coartazione emotiva’, allorquando lei ammette e confessa e di essere stata ‘ossessionata dalle continue intrusioni nella sua vita privata da parte di un ex compagno di liceo’, proprio il ragazzo sfregiato con l'acido deturpato selvaggiamente, colpevole di aver osato avvisarla dei pericoli che incombevano sullo strano idillio con il brocker Boettcher.

Non solo i giudici ma come nel classico coro della tragedia greca di Eschilo, davanti ad un oblunga platea mediale nazionale ed internazionale, tutti si chiedono se ciò che questa madre ha spezzato con un proprio atto di sadismo, una gravissima "violazione della giustizia", ricadrà in forma di colpa sul figlio, quasi ripercuotendosi di generazione in generazione.

Va da sé che per nessuna donna è possibile ignorare o accantonare il problema centrale della maternità, questo vale anche per Martina, perché a nessuna donna, anche se condannata e incarcerata, potrà essere negato il diritto alla maternità biologica, sociale, giuridica ed emozionale. Cardine e pilastro della personalità femminile, l’impulso materno non può essere cancellato per sentenza, non può essere represso da alcun codice né tanto meno negato da nessun giudice. Resta nell’umanità dell’attesa che senza più dolore né rimorso dovrà far sorgere in Martina la personalità più profonda di donna, solo la forza straordinaria di un bambino che ha bisogno di cure. L’unico innocente in questa storia che per amore, solo per amore, può paradossalmente salvare fino in fondo proprio sua madre.

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