Affrancarsi dal gas russo? La propaganda va oltre l’evidenza: “in Italia (e in Calabria) il metano non c’è”

10 novembre 2022, 08:30 Opinioni&Contributi

I nuovi mantra che in tempi di crisi energetica indotta, posticcia, vanno di moda, recitano convintamente che l’Italia è ricca di metano e che tutto questo gas potrebbe essere estratto nel giro di pochi mesi per renderci indipendenti dal gas russo: “Dalla crisi energetica può nascere un’occasione: abbiamo il dovere di sfruttare a pieno i giacimenti di gas nei nostri mari”, così proclamava Giorgia Meloni nel discorso alla Camera, in occasione del voto di fiducia del 25 ottobre, dando il primo esempio di trasformismo della sua carriera di premier rinnegando le sue posizioni del 2016 quando, in occasione del referendum del 17 aprile di quell’anno, si schierò contro il rinnovo delle concessioni per estrarre gas nello Ionio e nell’Adriatico che, parole sue, “avrebbero favorito solo le grandi lobby”.


di Natale Calabretta*

Oggi a condurre i giochi (che Meloni lo voglia o meno) è il piano mondialista di transizione ecologica (Pitesai) del gattopardesco ex ministro e attuale consulente governativo Roberto Cingolani. Nulla di nuovo: le cose cambiano per continuare a non cambiare.

Ebbene, con questo report facciamo sapere al Primo Ministro Meloni e al consulente Roberto che l’Italia non è affatto ricca di metano.

In questa epoca l’ignoranza è una scelta, infatti basta andare sul sito del Ministero della Transizione Ecologica dove si mettono a disposizione i dati relativi ai 1.298 pozzi presenti in Italia (di cui 750 sono quelli non operativi) e ai vari campi di prospezione e coltivazione di idrocarburi presenti sul territorio nazionale per avere una idea reale su quanto sia la ricchezza italiana in termini di materia prime estraibili.

Nello specifico, i pozzi metaniferi d’estrazione sono presenti in tutto il territorio nazionale e in tutte le regioni: in particolare, la regione che guida la classifica è l’Emilia Romagna con 187 installazioni operative, seguono la Toscana con 45 e la Sicilia con 44, troviamo poi il Molise con 15 installazioni, la Puglia e le Marche con 12 e la Lombardia con 8, chiudono la classifica la Calabria con 7, la Basilicata con 6 e l’Abruzzo con un solo pozzo.

Tutti i giacimenti si distinguono secondo la loro ubicazione in onshore (di terra) e offshore (di mare) e a loro volta sono differenziabili, in funzione della loro capacità produttiva, in giacimenti “certi” (sfruttabili per oltre il 90%), “probabili” (sfruttabili per circa il 50%) e in fine i giacimenti detti “possibili” (sfruttabili in percentuali molto inferiori al 50%) (Vedi Foto 1).

Dai dati del Ministero si evince che sulla totalità del gas presente nel sottosuolo italiano, pari a circa 110 miliardi di metri cubi, quello realmente e potenzialmente sfruttabile è di circa 80-70 miliardi di metri cubi, cioè quello relativo ai soli giacimenti “certi” e “probabili”.

La correzione al ribasso della reale fruibilità dei giacimenti di metano italiani non è in realtà così sostanziale: il problema infatti non sta nella reale quantità più o meno effettiva di gas disponibile ma nella distribuzione di tale ricchezza.

Infatti, questa quantità di gas naturale che sta nel nostro sottosuolo è distribuita in centinaia di piccoli giacimenti isolati ovvero non facenti parti di macro depositi concentrati e geologicamente coerenti e che consentano, su macro aree, una coltivazione estrattiva logisticamente fattibile. (Foto 2)


La distribuzione

spaziale

dei giacimenti


La distribuzione spaziale così ampia e diffusa dei giacimenti e il caratteristico isolamento di ogni singolo giacimento porterebbe ad un antieconomico sfruttamento di tale ricchezza attraverso l’installazione di centinaia di pozzi sulla terra e decine di piattaforme in mare secondo una distribuzione fittamente puntiforme su tutto il territorio nazionale e ciò provocherebbe anche importanti, se non addirittura insormontabili, problemi di logistica e di ingegneria delle linee di distribuzione e di stoccaggio.

In sintesi, la distribuzione dei piccoli giacimenti di metano non geologicamente collegati tra loro e diffusi in modo puntiforme su tutto il territorio nazionale rende, nella maggior parte dei casi, l’estrazione di questo gas assolutamente non conveniente.

È facile concludere che un patrimonio nazionale di metano costituito da prudenti 70 miliardi di metri cubi distribuiti in piccole quantità su tutto il territorio nazionale può essere praticamente irrilevante ai fini di un consumo nazionale annuo pari a 76 miliardi di metri cubi; ovvero se fosse possibile estrarre tutto il metano italiano a disposizione, questo non basterebbe nemmeno per il fabbisogno nazionale nell’arco di un anno.

Non solo, la produzione nazionale di gas naturale diminuisce in modo inesorabile dal 2003 al 2021 passando da una produzione di quasi 14 miliardi di metri cubi annui a poco più di 3 miliardi; nello stesso periodo l’importazione di gas aumenta passando da poco più di 60 miliardi di metri cubi annui a quasi 80 miliardi.

No. L’Italia non è affatto ricca di metano e quel poco che c’è si sta esaurendo. Con buona pace del Presidente Meloni e del consulente Cingolani (Foto 3).


I risvolti speculativi

delle concessioni


Stando così le cose, infatti, già dall’indomani del fallimento del referendum del 2016 (il primo promosso dalle regioni contro lo Stato), è stato chiaro che le compagnie d’estrazione erano palesemente più interessate all’ottenimento delle concessioni che all’estrazione vera e propria di quelle piccole e mal distribuite quantità di metano presenti nel territorio e soprattutto nel mare italiano.

L’ottenimento della concessione, infatti, ha risvolti economici speculativi immediati per le società petrolifere quotate in borsa, pertanto la compagnia concessionaria riesce a ricavarne profitto senza neanche aver bisogno di fare un buco in terra.

In oltre l’ottenimento di una zona di prospezione e coltivazione in concessione magari non particolarmente produttiva consente di installare e rendere produttive piattaforme a fine vita, vere e proprie carcasse, solo allo scopo di aggirate e rinviare i procedimenti e le relative onerose spese di dismissione imposte dalle Linee Guida - Dismissione mineraria delle piattaforme - pubblicate con Decreto Ministeriale del 15 febbraio 2019.

A conferma di quanto detto, è emblematica la concessione dei campi di estrazione a largo delle coste crotonesi contrassegnate come Zona Estrattiva Marina Rimodulata “F” che, evidenze statistiche alla mano, probabilmente ha le stesse caratteristiche puntiformi e di bassa produttività tipiche di questa area del Mediterraneo, ma che nonostante tutto, secondo la propaganda ambientalista in salsa PNRR tanto di moda, dovrebbe dare significativo contributo alla farsa dell’indipendenza dal gas russo in tempi di guerra e di aumenti del costo del gas in bolletta che con la guerra non ha nulla a che vedere.


La vera potenzialità

di produzione

dei pozzi calabresi


Ma è di questi giorni (e non può essere un caso) l’impegno dell’ENI a aumentare la produzione dei gas dei pozzi dei giacimenti di Crotone per contribuire all’aumento delle riserve nazionali in tempi di guerra.

Pertanto, volendo fare un focus più approfondito sui giacimenti crotonesi, è noto che sulle nostre coste esistono punti di estrazione facenti parte della Zona Estrattiva Marina Istituita “D” oltre che alla, già citata, nuova concessione oltre le dodici miglia ricompresa nella Zona Estrattiva Marina Rimodulata “F” (Foto 4).

Dai siti del Ministero dello Sviluppo Economica e del Ministero della Transizione Ecologica è facile controllare la vera potenzialità di produzione dei pozzi presenti in Calabria quasi tutti concentrati nel territorio crotonese e nelle sue acque costiere che attualmente ammonta a circa 5 milioni normal - metricubi all’anno pari allo 0,15% della produzione nazionale e pari allo 0,0066 del fabbisogno nazionale (Foto 5).

Senza entrare nello specifico delle caratteristiche e delle produttività dei singoli pozzi e delle singole teste di pozzo, è facile verificare che la maggior parte dei punti di estrazione intorno al capo Licinio sono pozzi definiti “produttivi non eroganti” che significa sostanzialmente esauriti ovvero giunti a “produzione di sabbia” come si dice in gergo (Foto 6).

A dimostrazione di ciò è emblematico l’andamento del grafico di produzione di gas naturale del “Campo Capo Colonna” dal 1980 al 2003 (Foto 7).

In questa situazione l’ENI, concessionaria dei giacimenti crotonesi costieri e subcostieri, assicura al governo un contributo essenziale all’approvvigionamento di gas in risposta alle esigenze di aumentare le riserve strategiche: l’obbiettivo è quello di mettere subito a disposizione dello Stato una quantità di gas doppia rispetto a quella prodotta sin ora dai pozzi di Crotone.

A tale scopo si vorrebbero riattivare i pozzi “produttivi non eroganti cioè esauriti sin dal 2018 denominati “Luna 41A direzionato” e “Hera Lacinia 17A dir.” afferenti entrambi alla piattaforma Luna A, oltre che implementare la produzione di un terzo pozzo anche esso afferente a Luna A e identificato come “Hera Lacinia 16 dir.” anche esso in via di esaurimento poiché dal 2020 ad oggi ha ridotto la sua capacità di erogazione del 90% (Foto 8).

Dati alla mano, risulta molto complicato a tecnici e non riuscire ad immaginare come la riapertura di questi tre pozzi, con queste specifiche caratteristiche di produzione, possa implementare del 100% la produzione del cluster crotonese di gas naturale.


L’inverosimile

approvvigionamento

“bellico-strategico”


Quanto ai tempi di messa in produzione la questione si complica di parecchio rendendo l’intera operazione di approvvigionamentobellico-strategico”, tanto auspicata dal governo, abbastanza inverosimile: non si entrerà in merito alle procedure annose per le autorizzazioni delle sole prospezioni che interesserebbero la zona “F” oltre le 12 miglia i cui reali fini sono già stati esposti, ma più concretamente considerando il caso dell’unico pozzo esistente e produttivo, “Hera Lacinia 16 dir.” per il quale il solo iter autorizzativo avrebbe una durata di almeno 18 mesi per non parlare poi dei tempi di revamping dell’impianto di estrazione e allaccio alla rete di vettoriamento (facilities) necessario all’aumento di produzione e alla immissione in rete del gas estratto.

Insomma, da quanto esposto, non è affatto convincente l’assunto trionfalistico molto diffuso tra la gente comune e tra i politici, secondo cui negli strati più profondi “di terra e di mare dell’Italia, e dell’Italia meridionale in particolare, ci siano immense quantità di idrocarburi che aspettano di essere tirati fuori e tali da poter renderci indipendenti dalle forniture russe; le stesse nuove concessioni rilasciate all’indomani del referendum del 2016 non hanno come vero scopo l’estrazione di gas in zone così scarsamente produttive e allo stesso modo non è probabile che i pozzi in esaurimento del territorio crotonese possano essere sfruttati in modo sostanziale e in tempi brevi per dare un contributo significativo alle riserve nazionali.

Ma la propaganda passa sopra a tutto e non considera l’evidenza.

La conclusione è scontata e storicamente consuetudinaria: di sicuro quello che si otterrà da questa nuova corsa all’oro fossile e gassoso sarà l’arricchimento sterile di alcuni, l’ennesimo scempio al territorio crotonese e le aspettative di una popolazione affamata che rimarranno per l’ennesima volta deluse. Un film già visto.

*Ingegnere