Lo studente pestato e il fallimento di una comunità: educare è un fatto e un atto sociale

21 ottobre 2021, 15:58 Opinioni&Contributi

In punta di piedi, ma augurandomi di suscitare più di una (auto)riflessione, mi permetto intervenire nel fatto di cronaca riguardante l’aggressione del giovane Emanuele (QUI), del suo altrettanto giovane aggressore, delle rispettive famiglie coinvolte (loro malgrado), muovendo dal termine “fallimento” utilizzato dai genitori dell’aggressore nella loro dignitosa pubblica lettera di scuse.


di Cesare Perrotta*

Dal mio punto di vista, privilegiato per l’esercizio di una professione nel campo delle relazioni di aiuto (Counselor) prevalentemente con adolescenti e loro famiglie, per l’esercizio della stessa professione da più anni in diversi Istituti scolastici della città di Cosenza, di educatore volontario nell’Agesci nel territorio di Castrolibero, se di un vissuto fallimentare si tratta, lo stesso non può essere riconducibile ad una sola parte delle diverse parti chiamate in causa.

La premessa alla mia osservazione ha radici nel presupposto che oggi l’educazione è un fatto sociale, non è più un fatto privato: alla costruzione dell’identità della Persona (in continuo divenire, e in modo particolare in età adolescenziale) partecipano più soggetti, ciascuno dei quali, progettualmente in relazione, contribuisce alla formazione della stessa nella direzione di un’autonomia responsabile esplicitata nelle relazioni con se stessa e sociali.

Si tratta di un nuovo (ma nemmeno tanto) paradigma che chiama in causa il concetto di “comunità educante” (l’educazione come fatto sociale e non più solo privato), di sostegno allo sviluppo di una personalità autonoma e responsabile attraverso un processo continuo di connessione con il mondo e il sapere, che richiama gli attori in gioco (famiglie, scuola, parrocchie, associazioni, luoghi e spazi del tempo libero, istituzioni locali, lo stesso mercato) a mettersi in relazione tra loro. In rete, uscendo da un’autoreferenzialità rivelatasi controproducente. Manchevole, limitante l’educazione.


Da una “comunità di destino

a una comunità di cura”


Allo stesso paradigma educativo appartiene l’azione di “sviluppo di comunità finalizzata alla costruzione di legami sociali, promuovendo spazi di incontro e confronto tra le menzionate componenti di un territorio contiguo.

Un’alleanza educativa intenzionalmente ricercata, mettendoci ciascuno del proprio. Una sfida per ciascun “ente-soggetto” in relazione con gli altri, uscendo dal proprio isolamento per fare fronte alla comune realtà, approdando ad un ripristino dell’educazione al proprio interno e nelle reciproche contaminazioni. Un passaggio da una “comunità di destino a una comunità di cura” (Eugenio Borgna).

È in questa premessa, in questo presupposto, che quanto accaduto è ravvisabile in quella rappresentazione fenomenologica che Lacan ha definito come “cultura dello slegame”, fatta di frammentazione e individualizzazione della condizione esistenziale e sociale.

Una “cultura slegata” nella quale è in crisi il rapporto relazionale e sociale con l’Altro, che da legame affettivo si è trasformato in legame di utilità, tipico del discorso capitalista: del consumo di cose, di oggetti sempre nuovi, come di persone; dell’obsolescenza pianificata di cose come di persone, secondo il principio di utilità.

Secondo questa visione, sono a chiedermi: hanno fallito (attribuendosi questo termine) solo i genitori dell’aggressore? O quanto accaduto chiama in causa tante mancanze altrettanto fallimentari?

Il pensiero va così nella direzione di tutti gli astanti al momento dell’aggressione: come più volte ha sottolineato e con coraggio esortato la mamma di Emanuele, nessuno ha visto?


Il fallimento dell’educazione

in famiglia e nella scuola


Eppure all’uscita da scuola erano lì presenti altri studenti, insegnanti, genitori. O forse che quel non vedere, quell’agire omertoso, fa parte di un nascondimento (solo apparentemente) funzionale ad una forma di benessere personale, privato, individualistico, affatto partecipativo, eticamente scorretto, nella mancata coscienza dell’essere tutti appartenenti ad una stessa societas? In questo ravvedo il fallimento dell’educazione in famiglia.

E la scuola? Sebbene l’aggressione sia avvenuta oltre il perimetro dell’Istituto scolastico non viene da sé chiedersi se l’evento, in diverse forme di prevaricazione, non sia iniziato tra le mura di una determinata aula? E nessuno mai si è accorto di nulla, anche oltre quell’aula?

L’esperienza mi insegna il contrario, come pure mi dice della mancanza di progetti specifici volti all’ascolto dei tanti disagi dei nostri adolescenti.

Anzi, molte iniziative, talvolta ben finanziate, vanno nella direzione di attività performanti, dove gli ultimi restano ancora ultimi. Di attività e apprendimenti fondati sulla competizione.

Un po’ come accade nella direzione dell’insegnamento: “si fa parti uguali tra disuguali” tanto per citare don Lorenzo Milani. Il fallimento della scuola.

Per non parlare poi dell’assenza di iniziative di promozione sociale rivolte ad adolescenti sostenute dal Comune. In più di una circostanza le risorse economiche disponibili, e non sono poche, restano inutilizzate per la mancanza di una seppur minima progettualità.


Il fallimento delle istituzioni locali

e della religione


Quelle che vengono utilizzate, a pioggia, per accontentare le richieste delle pur tante forme di associazionismo presenti nel territorio, assolvono a funzioni di puro assistenzialismo (che ha pure i suoi vantaggi, soprattutto in tempi elettorali). Il fallimento delle istituzioni locali.

E in questo novero di fallimenti, dal mio punto di vista, ma anche questo fa parte del mio vissuto, non poteva mancare l’associazionismo: quello cattolico in particolare, troppo centrato sull’indottrinamento e un catechismo fuori dal tempo, tutt’altro che religioso (da religio, che tiene insieme), che ha poco a che fare con l’autenticità del messaggio di Gesù.

Ne è prova l’assenza generalizzata di giovani dalle comunità parrocchiali, non più affascinati (termine che richiama, ancora, il tenere insieme) da una proposta di fede capace di coniugarsi con la realtà fatta di altre Persone e un territorio rivelatore di tante povertà educative ed altre forme di fragilità. Il fallimento di una religione e dell’Istituzione che la regge.

E mi fermo qui.

L’autoreferenzialità con la quale ciascuno di questi soggetti agisce, il più delle volte traducendosi in una reciproca squalifica (quella tra scuola e famiglie, ad esempio, la più rilevante, nonostante un “patto educativo” controfirmato dalle diverse parti, ma il più delle volte non noto agli stessi studenti), piuttosto che l’assunzione di posizioni “up-down”, di dare e avere, nelle reciproche relazioni, anche all’interno di ciascun ente, determinano personalità vulnerabili proprio per quella mancata interconnessione che fa di un territorio, e dello stesso ente, una “comunità educante” alla quale riferirsi anche in funzione di un possibile “sviluppo di comunità”. Il fallimento di un’intera società.

Quando accadono poi fatti come quello assurto alla cronaca (QUI), dal mio punto di vista uno dei tanti che quotidianamente avvengono anche oltre le aule di un qualsiasi Istituto scolastico, al di là di ogni retorica, di caccia al colpevole di turno, dello scarico gli uni sugli altri delle responsabilità, se non si riesce individualmente e comunitariamente a leggere il disagio diffuso (non solo adolescenziale) quale espressione di mancati interventi educativi, reciprocamente sorretti, non c’è che da aspettarsi tanti nuovi fallimenti, incentivando l’idea, prevalente di questo tempo – e la pandemia dovrebbe averci insegnato il contrario – che ci “si salva da soli”, rafforzando un agire narcisistico che cancella l’alterità, escludendo l’Altro, rendendolo un competitor: qualcuno da lasciare a se stesso, per bastare a se stessi, con conseguente affievolimento dei legami affettivi, emotivi e sociali.

E di tutto ciò, per davvero, non abbiamo bisogno.

* Counselor Professionista Avanzato