Tragedia nel Mediterraneo. Savino: di noi resta un corpo morto a galleggiare sulla vergogna dei nostri silenzi

28 aprile 2021, 08:15 Opinioni&Contributi
Foto: Flavio Gasperini / Sos Mediterranee

Caro Ulisse, il mio cuore trova il coraggio di liberare i pensieri ora e solo ora, dopo aver esperito momenti di grande dolore nel vedere, nei giorni scorsi, le immagini di corpi morti galleggiare al largo del Mediterraneo, dove 130 tra uomini e donne e bambini hanno trovato la morte nel viaggio speranzoso verso una nuova Itaca.


di mons. Francesco Savino*

Voglio chiamarvi Ulisse, come l’eroe omerico del nostos, colui che brama il ritorno nella sua patria e che sfida la sorte e la morte per riposare gli occhi su ciò che ha sempre amato.

Ulisse, come colui che ha in sé la vocazione al ritorno ma anche alla nostalgia che è Nòstos (appunto ritorno) e Álgos, cioè sofferenza e che quindi si veste di quella tristezza dettata dall’impossibilità di tornare a casa.

Ulisse è il più grande nostalgico della storia e a tutti voi che oggi conoscete la crudeltà della finitezza della vita e che avete preferito l’estasi dell’ignoto all’incomprensione della miseria, mi sento di chiedere perdono perché oggi, la vostra vita, valore supremo agli occhi di Gesù Cristo, è diventata l’inganno di Ulisse che si fa Nessuno agli occhi di Polifemo.

Per sfuggire alla morte ed alla violenza del Ciclope l’eroe figlio della mitologia classica, fingerà di chiamarsi Nessuno, nel dolore di una negazione della vita che assume i contorni del nichilismo sprezzante di questa umanità che tace, anche di fronte alla vostra ingiusta sorte.

Oggi anneghiamo tutti, con voi, nel Mediterraneo. Siamo annegati tutti, ognuno di noi, in ogni parte del mondo. Siamo
annegati nel comodo divano delle nostre case, nei cori di preghiera delle nostre Chiese, siamo annegati sul posto di lavoro e al pranzo tra i parenti.

Siamo annegati con altre 130 persone e di noi non resta che un corpo morto a galleggiare sulla vergogna dei nostri inascoltabili silenzi.

Siamo i corresponsabili di questa ennesima tragedia dis-umanitaria perché non si accosti a quanto accaduto nelle ultime ore al largo della Libia, neanche la radice della parola umanità.

L’umanità che non si può ridurre ad essere l’insieme di uomini e donne ma che è un sentire, un atteggiamento, una dote, un dono, sembra essere affogata nella richiesta inascoltata di aiuto di chi oggi giace sul fondo del mare, quello stesso mare che tratteggia l’orizzonte, che alimenta il desiderio della terra e che oggi è il dolore dei flutti e dalla miseria del nostro disinteresse.

Madri, padri, figli, uomini e donne mossi dal coraggio della disperazione hanno sfidato quelle acque non più chiare, né fresche né dolci ma torbide e lerce, sognando un futuro di riscatto che non vedranno mai più.

Abbiamo ingannato il più grande insegnamento di Gesù: la fraternità e lo abbiamo fatto proprio mentre il Covid-19 ci stava dimostrando quanto siamo uguali nel dolore, nella sofferenza e nella morte.

Ci siamo mentiti. Anche nella morte si può essere diseguali e non perché a qualcuno tocchi morire di più ma perché, col nostro tacere, la morte di alcuni è più ingiusta ed intollerabile.

“Il racconto di Caino e Abele insegna che l’umanità porta inscritta in sé una vocazione alla fraternità, ma anche la possibilità drammatica del suo tradimento. Lo testimonia l’egoismo quotidiano, che è alla base di tante guerre e tante ingiustizie: molti uomini e donne muoiono infatti per mano di fratelli e di sorelle che non sanno riconoscersi tali, cioè come esseri fatti per la reciprocità, per la comunione e per il dono”

(Papa Francesco, Messaggio per la Celebrazione della Giornata Mondiale della Pace - 1 Gennaio 2014).

Come è violenta la mano che smette di essere fraterna e si fa fratricida e lo fa con l’arma più potente: il silenzio.
Chi sono i responsabili di questo genocidio del mare? Il nostro tacere urla: “Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?” Come si fa ad osservare 130 vite umane in pericolo di vita e a pensare di avere il tempo di rimbalzarsi la responsabilità dell’accoglienza? Come si fa a discutere nei tribunali la colpa della loro morte e a non interrogarsi allo specchio della nostra coscienza che è il primo vero giudizio perché quella peserà Dio, nell’ora della nostra morte?

Quante altre vite galleggeranno davanti ai nostri occhi prima che i poteri forti si impegnino seriamente per stabilire una governance delle migrazioni che ci restituisca il senso vero dell’essere fratelli?

“Accogliere, proteggere, promuovere ed integrare”, sono i verbi d’azione che ci suggerisce Papa Francesco nella sua ultima Enciclica “Fratelli Tutti”, ma li abbiamo, ancora una volta, annegati in mare, nel mare Nostrum che ora forse può vantare sì di essere patria: la patria della vergogna.

Non conoscerò mai il colore dei vostri occhi, né il suono delle vostre voci, né la tenerezza delle vostre strette di mano ma, per me, non sarete mai un numero, mai la superficialità di appellarvi per centinaia, mai solo il memento mori di una tragedia ma sarete sempre il desiderio di una patria nuova, di una terra abitabile e condivisibile, di un’Itaca sognata che non potrà essere dimenticata.

Sono annegato anche io in questa crocifissione di massa nel mare dell’indifferenza e mi resta solo la consolazione della preghiera che possa arrivare sul fondale di quel mare che lambisce la sofferenza senza fine di sogni infranti.

*Vescovo di Cassano all’Jonio