Covid, un anno dopo il primo caso in Calabria: cosa è cambiato nella gestione della pandemia?

28 febbraio 2021, 09:00 Imbichi

L'attenzione mediatica sulla "questione sanità" ha fatto cadere qualche testa, ma non ha risolto il problema della lentezza istituzionale e dei ritardi. Ad un anno dal primo caso positivo in Calabria e con la prospettiva di un nuovo peggioramento, ci ritroviamo quasi nella stessa condizione del 2020.


di Francesco Placco

Un sindaco invita i propri concittadini a rinunciare agli aperitivi (LEGGI), un altro a non abbassare la guardia (QUI). È questo il tenore dei comunicati istituzionali lanciati tanto sui social quanto sui canali ufficiali dei vari enti calabresi, a fronte di una rinnovata preoccupazione per l’aumento dei casi da coronavirus in tutta la Regione.

Ci ritroviamo così ad un anno esatto dal primo caso di coronavirus in Calabria: era il 28 febbraio del 2020 quando, dopo giorni di chiacchiericcio e indiscrezioni al limite del pettegolezzo, arrivò il primo paziente realmente positivo (LEGGI) assieme alla moglie. Quell’uomo purtroppo non ce l’ha fatta, generando a sua insaputa un vasto dibattito sul fatto se fosse guarito o meno. Dibattito alimentato dall’Asp e dall’Ao cosentine, che si affrettarono a smentirsi a vicenda affermando la negatività e la positività dell’uomo.

Da quello spiacevole evento sono passati 366 bollettini covid, pubblicati prima dalla Protezione Civile e poi dalla Regione Calabria, che hanno certificato ad oggi 37.720 contagi e 680 decessi, ma anche 30.736 guariti. Un anno nel corso del quale siamo passati dal prendere sotto gamba la situazione (QUI) al finire alla ribalta nazionale per la gestione alla buona della sanità (LEGGI), tra il ridicolo ed il grottesco.

Sono “cose da Calabria”, ha commentato qualcuno. Perché in fondo si sa che ci piace perderci in un bicchiere d’acqua. Partiti con 115 posti di terapia intensiva avremmo dovuto raggiungere le 280 unità, ma in un anno ci siamo fermati a 140. Così come si sono fermate le varie iniziative regionali, specialmente nei settori considerati “cruciali”. Avremmo dovuto avere degli infermieri in ogni scuola (LEGGI), ma alla fine abbiamo preferito una soluzione più politica, alimentando lo spettro della chiusura tramite diretta sui social.

Anche per quanto riguarda i vaccini procediamo a rilento. Dall’approvazione del Piano Vaccini Regionale (QUI) si sono affermate e smentite molte cose, e sembra che ogni giorno si chieda di includere una categoria o dare priorità a qualcuno. Fatto sta che ad oggi la Calabria è l’ultima regione per somministrazioni, avendo inoculato poco meno di 90 mila vaccini, che rappresentano il 59% delle dosi disponibili. Su una popolazione di circa 2 milioni, di questo passo finiremo tra una ventina d’anni, in perfetta sintonia con i tempi medi di realizzazione di un’opera pubblica.

Sembra esserci un solo filo conduttore, da quel 28 febbraio 2020 ad oggi: la confusione. Una confusione beffarda, sicuramente figlia di una situazione difficile e che nessuno aveva mai vissuto, che tiene conto dei vari “istinti” della popolazione, tra chi è iperprotettivo e chi vorrebbe vedere riaperto tutto e subito.

Nel parlare di sanità e salute si continua ad inseguire termini come “urgenza”, “velocemente”, “rapidità”, “tempi brevi”, ma l’unica velocità d’azione è stata quella del personale sanitario, che anche in Calabria, nonostante tutto, ha tenuto ed ha garantito assistenza rischiando in prima persona. La politica promette ospedali, posti letto, cantieri, fondi a pioggia. I Comuni si adeguano chiamando dei volontari per le vaccinazioni, da effettuare in locali privati per garantire il servizio al territorio.

Ci si era forse cullati, nuovamente, sul mito del “basso rischio”? Forse. Un po’ per sfinimento, un po’ per voglia di tornare alla normalità. Ma lo spettro di un nuovo peggioramento, di una nuova ondata, ci rimette di fronte a tutto ciò che non è stato ancora fatto, a tutto ciò che manca. Ancora, dopo un anno dal primo caso positivo.