Quel Mig libico venuto dal nulla che lega “misteriosamente” la strage di Ustica con quella di Bologna

2 agosto 2020, 16:25 100inWeb | di Vito Barresi

“Si deve tener conto che per avere tutte le tessere del puzzle c’è almeno un quarto protagonista di cui tener conto oltre il DC9, l’aereo che vola sopra il DC9 e quello che attacca il DC9: il Mig23 libico. Ma per capire fino in fondo la sua storia si deve andare in Calabria.” Così scrive Paolo Cucchiarelli, nella chiosa che chiude il suo ultimo libro “Ustica&Bologna. Attacco all’Italia”, La Nave di Teseo, 2020. Tra i tragici estremi di due date il 27 giugno e il 2 agosto del 1980, ritornano i segreti inquietanti, le menzogne rimaste senza verità, del Mig Libico caduto in un caldo venerdì d’estate il 18 luglio dello stesso anno.


di Vito Barresi

Una scansione impressionante, la cremagliera micidiale del terrore innescata e messa in moto su uno scacchiere internazionale ancora segnato dalla contrapposizione tra i due blocchi nucleari, Usa-Urss.

Non un giorno qualunque ma una di quelle date che si segnano profonde nella memoria collettiva, negli almanacchi comunali di un piccolo borgo di montagna.

Fu una di quelle pagine che restano ancora sospese, trascinando un parlare che dura anni, decenni, quasi un usucapione della fantasia, che alla fine si tramuta nell’identità stessa di un paese, uno stemma di riconoscimento mondiale per lungo periodo di tempo.

Per cui chi va alla voce Castelsilano non dirà per associazione il nome di un politico dell’Ottocento, un giornalista del Novecento, una giovane scienziata del Duemila, ma ciò che resta di un fatto di cronaca politica, una scheggia del vecchio equilibrio mondiale nato dal secondo dopoguerra, la storia feroce di tanti innocenti uccisi nella strage di Ustica.

La verità anche adesso la sapranno solo i potenti di un mondo che ormai non c’è più. Anche per quel giorno il Corano aveva la sua Sūra, tanto che in ogni spicchio di cielo mediterraneo per gli aerei arabi non si doveva né poteva volare.

Non per via di un ordine impartito da qualche gruppo o Stato canaglia filoterroristico. Neanche per rimpianto o per paura, dopo quanto era accaduto il 27 giugno 1980 nel tragico gorgo azzurro di Ustica, quanto e soltanto per il volere di Maometto.

, invece, era successo che un DC 9 dell’Itavia, una compagnia parallela a quella nazionale che si reclamizzava con il volto candido di una bella hostess ungherese, si era inabissato inspiegabilmente con il suo carico d’umanità e speranze nel Tirreno italiano.

Cimitero sommerso di intrighi, ingiustizia e depistaggi. Tutto quanto, si disse, dopo un improvviso conflitto aereo, nell’avverarsi di uno scenario caldo in un quadrante della lunga durata della “guerra fredda”.

Erano passate solo alcune settimane e certo nessun avrebbe accampato un rapporto tra il 27 giugno e il 18 luglio, tra Ustica e la Calabria, Castelsilano in provincia di Catanzaro, a qualche decina di chilometri da Crotone.

Se non per via del fatto che in una data in cui nessun pilota avrebbe potuto violare il precetto della legge coranica, i sacri divieti del Ramadan, cadde in Calabria un altro aereo, con a bordo un fantasma e un corpo trucidato. Lo sentirono arrivare verso i boschi della Sila. Lo videro decollare lungo le spiagge di Capo Rizzuto?

Quasi una giostra che mulinellava nell’aria tra la statua turco-islamica del condottiero Uccialì e il Castello Aragonese reso famoso da Monicelli nel suo film sul “crociato” Brancaleone.

Poi lo schianto con una esplosione in agro di Castelsilano, un’esile colonna di fumo vista alzarsi da dietro una catena di colline all’interno di un vallone.

Erano all’incirca le 11 e 30. Un’ora afosa quando sul crinale di roccia e d’argilla della “Timpa delle Magare” si apriva il sipario, il diorama collaterale, della grande rappresentazione spionistica del disastro di Ustica: la morte eroica quanto enigmatica del capitano della Repubblica Popolare e Socialista della Jamahirija, il pilota di Gheddafi, Ezzedin Fadhel Khalil.

Capita di sovente di tornare in quei luoghi, riandando con la memoria giovanile in quell’ormai lontano mattino di luglio. Così ripiombo nel silenzio di un posto cambiato, nella magia perpetua di un angolo di sud, ancora oggi chiuso in un “poligono” militare di maglia stretta che anche nelle simulazioni virtuali sembra difficile da bucare.

Più in alto da qui restano ancora i segnali “archeologici” del presidio militare con la sede radio dell’AM di Montescuro, la stazione Scatter di Monte Mancuso; a valle, invece, quel che resta dell’aeroporto militare S. Anna, a Crotone e poco più avanti a Sellia Marina, solo la sagoma immaginaria della lunga e sottilissima antenna della stazione Loren della Nato.

Per quel MiG 23, monoposto delle Forze Armate Libiche, accasciato alla rinfusa tra le sterpaglie di un paese che durante il regime si chiamava Casino, si consumarono mesi e mesi di “pettegolezzi” ma soprattutto di strani visitatori, curiosi quanto taciturni arrivi stranieri.

Una specie di pantomima di generali e barbe finte, servizi spionistici e strateghi militari che veniva in pellegrinaggio sui monti della Calabria, dove spesso cadono anche gli elicotteri e muoiono i generali dei Carabinieri.

Un sabba diurno di sopralluoghi e accampamenti allestiti attorno a un apparecchio sforacchiato da colpi alieni, un girotondo silenzioso in cerchio alla salma lacerata di un uomo che forse era stato congelato in un frigorifero della base aerea di Gioia del Colle.

Il cadavere, di sesso maschile dall’apparente età di 25-30 anni, appariva di colorito scuro, corporatura robusta, di lunghezza su 1,75, con capelli ondulati e baffi neri; l’iride era di colore castano scuro; il bulbo dell’occhio sinistro era fuori dell’orbita; la testa aveva subito la completa asportazione traumatica della calotta cranica e la frantumazione delle ossa facciali.

Indosso aveva una tuta da pilota di colore grigio scuro, lacerata in più parti. Non calzava scarpe. Non portava distintivi né altri segni di identificazione.

Al generale americano venuto in Calabria per conto della Cia sembrò non interessare il relitto umano quanto, invece, la struttura tecnica del velivolo militare.

I libici reclamavano la restituzione del corpo loro eroe. Gheddafi irosamente in quelle ore minacciò e pressò persino sulla Fiat, rompendo le palle al neghittoso amministratore delegato di Gianni Agnelli, Cesare Romiti.

Per chiedergli l’intervento dell’Impregilo, al fine d’issare la bandiera del suo suddito, liberandolo da quella gola maledetta. Ma come in tutte le cose tanto precise ecco il baco dell’obiezione e del legittimo sospetto: fu una messinscena quel ritrovamento “ufficiale” del MiG23?

Forse, se si tornasse a rovistare un appunto S.I.S.DE del dicembre88, nel quale si riferisce di una fonte che aveva dichiarato l’esistenza di precise testimonianze sulla precipitosa “correzionedel certificato medico stilato al momento del ritrovamento del cadavere del pilota libico; il volo di un elicottero militare (di tipo a doppia pala, stesso modello in dotazione alle forze armate italiane, americane e Nato) che avrebbe sganciato un bidone contenente (presumibilmente) esplosivo, il giorno prima del ritrovamento “ufficiale” del MiG libico; la facilità di accesso in territorio italiano attraverso canali aeronautici non controllati.

Giovani cronisti che in “erre” si chiamava entro le diciotto ai Grandi Magazzini di Lotta Continua, quotidiano diretto da Enrico Deaglio in Roma, sentimmo il vago magone di quel dubbio.

E se quel MiG 23 fosse caduto realmente senza alcun infingimento né simulazione? Da quale postazione avrebbe effettuato il decollo? Da Gioia del Colle o, ipotesi più ravvicinabile per via dell’innesto del pilota automatico, da quel vero e proprio aeroporto delle nebbie che è sempre stato, non solo in questa vicenda, lo scalo di S. Anna?

Da un telefono di quell’ “hub” di periferia, che l’Aereonautica aveva dato in “comodato d’uso” alla compagnia Itavia, un solerte ufficiale dei Carabinieri della locale compagnia pitagorica, la triste notte del 27 giugno, nel ballo guerrafondaio appena in corso, si informava molto interessato sulla fine apocalittica del DC9 Itavia. Senza alcuna ragione apparente.

E dire che a bordo non c’erano persone provenienti da Crotone o dal suo territorio o comunque ad esso legate. L’incidente era avvenuto in pieno Tirreno, appena poche ore prima. Nessuno era a conoscenza delle circostanze, della dinamica di quell’orrenda caduta a picco, la discesa ctonia negli abissi di un mare color cobalto.

Nel vento caldo delle Magare volava un elicottero su un cratere senza fiamme. Il Servizio Militare ricevette la prima informativa alle 16.30 con fonogramma dal Comando dei Carabinieri.

Un testo asciutto:ore 14.30 odierne in località Colimiti - comune Castelsilano è precipitato un aereo di tipo sconosciuto. Potrebbe trattarsi di aereo militare. Riserva.”

Alle 17.00 il vice pretore di Savelli, in assenza della Autorità Giudiziaria della vicina Crotone, procede con l’ufficiale sanitario alla descrizione e ricognizione del cadavere.

Era gonfio, alterato nell’aspetto, in stato di colliquazione, presentava larve di decomposizione visibili ad occhio nudo e raggruppate nella zona degli organi genitali. Durante l’autopsia la pelle delle mani si sfilòcome un guanto” per la colliquazione quasi totale dei tessuti sottocutanei.

Sarà stato per la calura che risaliva inesorabile dalle vicine distese cerealicole della piana del Neto, certo per l’eccitazione messa addosso da qual via via di mezzi militari e divise d’ordinanza ma quella notte a Castelsilano nessuno chiuse occhio. La gente che era accorsa prese sonno solo verso le prime ore dell’alba.

Quando ormai era il 19 luglio e già nella caserma di Caccuri c’erano molte persone indaffarate e in rapido movimento. Alti ufficiali, persino generali. Il giorno di gloria era passato su Castelsilano senza fare vittime. Soltanto un mormorio tra omertà e dicerie.

Poi una lunga scia di ambiguità ed equivoci. Definitivamente sepolti nel grembiule di una “magarache rideva beffarda involandosi lungo la scia di un strano aereo diviso in tre pezzi: il MiG di Gheddafi venuto dal nulla.