Covid-19 e crisi della democrazia in Europa. Tra memoria e nostalgia indietro non si torna

31 luglio 2020, 08:00 100inWeb | di Vito Barresi

Dal turatevi il naso di montanelliana memoria al voto con la mascherina modello Conte-Covid 19. Quelle del 20 settembre saranno le prime elezioni amministrative in Italia in cui andremo a votare con la paura che possa improvvisamente ritornare il coronavirus, con il rischio di una nuova epidemia e un ennesimo lockdown. Di certo all’ingresso delle sezioni elettorali i cittadini per accedere al seggio dovranno prima sottoporsi allo scanner per la misurazione della temperatura corporea.


di Vito Barresi

Non solo fisicamente ma anche politicamente di sicuro ciò che stiamo per affrontare sarà un voto “distanziato, nella nuova fase della democrazia del distanziamento, del confinamento, dell’emergenza sanitaria.

Una campagna elettorale sotto regime di protezione sanitaria in cui tutti sono obbligati fisicamente a rispettare le regolamentari distanze di sicurezza.

Dove i partiti, le fazioni, i capi politici, i militanti e simpatizzanti dovranno volantinare, speakerare, gazebare, fare propaganda e conquistare il consenso, distribuire programmi, facsimili e santini, in un clima pubblico a bassa soglia di contatti umani, su uno sfondo nazionale e internazionale in costante allarme, dentro il quotidiano ambiente locale in cui tutto politicamente e socialmente si è radicalmente trasformato da quando è apparso la paura del contagio e del virus.

Anzi, rispetto al più recente passato, laddove tutti erano convocati ai comizi elettorali per partecipare, per decidere, adesso il coinvolgimento sensoriale è un pericolo, l'emozione politica di un momento, quella in cui si ritrova sempre il filo delle passioni e delle proprie contrapposizioni identitarie agli altri, è vissuta come un desiderio quasi proibito.

Il virus ha reso inagibile lo spazio politico democratico, la politica nell’agorà, l’incontro e lo scontro dei partiti in lizza.

Sul significato del termine 'distanziamento sociale' s'interroga Giorgio Agamben, nel suo più recente saggio, “A che punto siamo?”, Quodlibet 2020, in cui osserva che:

“Quello che resterà è il «distanziamento sociale». Occorre riflettere su questa formula singolare, che è apparsa contemporaneamente in tutto il mondo come se fosse stata preparata in anticipo. La formula non dice «distanziamento fisico» o «personale», come sarebbe stato normale se si fosse trattato di un dispositivo medico, ma «distanziamento sociale». Non si potrebbe esprimere più chiaramente che si tratta di un nuovo paradigma di organizzazione della società, cioè di un dispositivo essenzialmente politico. Ma che cos’è una società fondata sulla distanza? Si può ancora chiamare politica una tale società? ”

Covid-19 ha intaccato la forza coinvolgente della democrazia diretta, la partecipazione popolare è caduta sotto zero, l’attivismo e la militanza sono quasi scomparsi, le forme di comunicazione empatica, relazionale, si sono spente abrogando la teatralità di piazza dell’agire politico.

La politica di massa, la massificazione elettorale, il rapporto contraddittorio e/o passivo tra massa e potere, mirabilmente argomentato in tanti classici della Scienza Politica, saranno una memoria del passato.

Di certo sappiamo che non saranno più consentiti i comizi oceanici, quasi una reliquia storica nazionale, un'archeologia del sistema elettorale, un ricordo in bianco e nero da rivedere nei film o nei grandi documentari in cui si narrano le gesta e gli uomini del Novecento italiano.

Ma con il declino dei comizi, con il quasi totale allontanamento del popolo dalle piazze che era già iniziato in epoca di ascesa della comunicazione televisiva e poi proseguito con l'avvento dei “social”, il Covid ha definitivamente messo fuori uso anche le convention, vietato gli assembramenti affollati, i cortei e le manifestazioni all’aperto e al chiuso nei teatri o nei palasport.

Democratizzando l’aristocratica usanza del “caminetto” nobiliare, tra guerre e dopoguerra a conquistare il posto centrale fu il fuoco del contatto umano, aperto, pubblico, gigantesco, persino spettacolare.

Era quella l’epoca della politica calda, in cui tra il leader e la massa scoccava il feeling, la quasi totale fusione tra lo spirito del capo e l’entusiasmo del popolo.

La politica calda si manifestava con una profusione di calore sociale intenso, fanatico, partigiano fatto di coinvolgimento “live”, dal vivo, strette di mano e abbracci dei fans, sia prima che dopo l’orazione o il discorso del presidente o del segretario generale, una cerimonia laica che riscaldava gli animi, rinfocolava gli ideali, rinsaldava la solidarietà dei seguaci.

Covid-19 ha tramutato il fuoco in acqua, il caldo in freddo, la passione nella paura, nella cautela, nella perdita della fiducia.

La politica “fredda” sta prendendo, specialmente in Europa, il sopravvento definitivo sulla politica calda. La pandemia riduce lo spazio democratico a ennesima zona a rischio di “quarantena politica”.

Ma in politica bisogna sempre fare attenzione agli sbalzi improvvisi di temperatura, alle transizioni climatiche che dalla foresta vanno fino alle steppe e alle praterie che appena scioglie la neve seccano.

Le rivolte che si sono svolte negli Stati Uniti quando si era già in pieno Coronavirus sembrano suggerire che tra dinamica politica e pandemia la relazione resta ancora molto instabile e talvolta incontrollabile.

Tutto può succedere. D’altra parte non era il grande timoniere cinese Mao Tse Tung a scrivere nel suo famoso e “famigerato” Libretto Rosso che basta un fiammifero per dar fuoco alla prateria?