Guarire da Covid-19 col Chinino ‘divina droga’. Torna in auge l’antico farmaco che in Italia sconfisse la malaria

29 marzo 2020, 14:30 100inWeb | di Vito Barresi

Prendiamo i fatti che avvengono con le dovute precauzioni. Utilizziamo i dati sanitari con riscontri scientifici comparativi. Non confidiamo troppo ciecamente nel sensazionalismo. Per sconfiggere una pandemia non basta credere a una facile panacea. Tuttavia un punto sembra fermo.


di Vito Barresi

Qualcosa significherà pure se, nella storia come nell’attualità, cioè come sempre accade, le più sofisticate e avanzate ricerche bio-farmacologiche condotte in “laboratorio” vengono vanificate dalla riscoperta confortante ma anche un po’ “banale”, dal ricorso a un rimedio antico come il chinino.

Pianta classificata negli erbari della medicina popolare con il nome di Cinchona calisaya, altrimenti detta la corteccia peruviana che, scriveva il protomedico del Regno di Napoli nel 1786 Giovanni Vivenzio, “specialmente della qual si fece spaccio di molte migliaia di libbre, e che fu il solo grande ed efficace rimedio che salvò dalla morte un sommo numero di persone”.

Sarebbe questo il caso del dimenticato chinino di stato, farmaco finalmente utilizzato all’inizio del Novecento per sconfiggere una pandemia storicizzata che da oltre un millennio mieteva vittime in Italia specie nella Pianura Padana.

Quale coincidenza in questo passaggio di testimone tra la malaria rurale e la malaria urbana nessuno può dire vi sia ma la storia delle epidemie è tutto un intreccio, una stratificazione, un sedimento che incide profondamente sulla stessa configurazione genetica delle popolazioni colpite.

Grazie all’eclatante chioma argentea di un illustre medico Didier Raoult, che assomiglia al Kit Karson di un Tex di Galeppini, un microbiologo e infettivologo marsigliese, di stile e simpatia quasi mazziniana e garibaldina, l’utilizzo degli alcaloidi clorochina e idrossiclorochina, due molecole abitualmente prescritte nel trattamento di diverse patologie (malaria, artrite reumatoide, lupus, ecc.), oggi il vecchio chinino, farmacologicamente rimodulato e rielaborato con apporti biochimici più aggiornati, prorompe sulla scena convulsa del contagio di Coronavirus, altrimenti detta “polmonite cinese”, con il nome più molecolare di “idrossiclorochina”.

Per quanti, come chi scrive, vogliano approfondire basta chiedere al proprio farmacista di fiducia di visionare l’indice del foglietto illustrativo, del presidio denominato Plaquenil 200 mg compresse rivestite.

Nel suo soffietto si legge a cosa serve e perché si usa questo mediamente classificato nella categoria farmaterapeutica come antiparassitario e antireumatico, terapeuticamente indicato per il trattamento dell’artrite reumatoide in fase attiva e cronica e nel lupus eritematoso discoide e disseminato.

All'inizio di marzo, il governo cinese rendeva noto i report di studi clinici su pazienti infetti da Covid-19, che hanno comportato l’uso di clorochina fosfato per valutare la sicurezza e l’efficacia.

Xu Nanping, viceministro della scienza e della tecnologia, dichiarava che la clorochina era stata utilizzata in 135 casi a Pechino e nella provincia del Guangdong, aggiungendo che durante il trattamento “nessuno dei pazienti con sintomi lievi e comuni ha sviluppato sintomi gravi. Quattro pazienti gravi sono stati dimessi dall'ospedale e uno ha visto alleviare i sintomi gravi”.

A metà marzo, i medici della provincia del Guangdong coinvolti in questa campagna di assistenza, hanno raccomandato il suo uso in un articolo pubblicato su una rivista cinese.

Nella nuova stagione del chinino in Italia c’è anche la Calabria, dove si sta sperimentando un trattamento a domicilio per i pazienti sintomatici affetti da coronavirus, sottoscritto in un protocollo firmato tra l’Unità Operativa di Malattie Infettive e Tropicali del Policlinico “Mater Domini” e la Cattedra di Malattie Infettive dell’Università “Magna Graecia” di Catanzaro, dirette da Carlo Torti, con la consulenza scientifica di Aldo Quattrone (QUI).

Potenza e destino della storia e della memoria. Torna il ricordo di una lunga pagina di sofferenze per questa regione che fu chiusa solo nell’immediato secondo dopoguerra con l’avvento di nuovi farmaci che sconfissero “a frevi i friddu”, detta anche 'na frevi maligna'.

Più di un terzo della Calabria fu infestata dalla malaria, determinando lo spopolamento di vaste zone che rimasero incolte e l'indebolimento dello stato fisico e morale della popolazione e la depressione dell'economia privata e pubblica.

Tanto da far scrivere a Giustino Fortunato che “la storia del Mezzogiorno fu la storia della malaria”.