Preti sposati in Amazonia? Francesco dice no, soltanto nella Chiesa Medioevale

12 febbraio 2020, 18:28 100inWeb | di Vito Barresi

Preti sposati? Neanche per sogno tornare al Medioevo, sembra dire Papa Francesco ai tanti curiosi che sospiravano una sua attesa decisione in merito. Solo allora, in quell'epoca complessa, articolata temporalmente, e persino spiritualmente molto sofisticata, anche i preti potevano sposarsi in forza di un diritto canonico con norme che ne contemplavano la possibilità, come ci racconta in un saggio di alcuni decenni fa ma che torna libro di palpitante attualità (Preti Sposati nel Medioevo, Claudiana), Francesco Quaranta. Grazie al suo lavoro vengono passate in rassegna tutte le eccezioni ma anche le regole giuridiche e le motivazioni teologiche e morali che il diritto canonico contempla in proposito. E poiché si è fatto tanto rumore per nulla attorno al libro del cardinale Sarah, forse meglio sarebbe tornare a leggere insieme sia l'ultima esortazione papale “Querida Amazonia” che il bel libro perduto negli scaffali della memoria di cui in rete si trova ancora qualche copia. Ovviamente a prezzo scontato di copertina.


di Vito Barresi

Presbytera mea? Al largo dalle infinite polemiche sul celibato ecclesiastico, l’amorevole esclamazione nuziale era un tempo consuetudine assolutamente legittima, protrattasi nella chiesa antica, fino e oltre il fatidico anno Mille. A tal punto essa non suscitava scalpore, per cui l’ultimo papa che ebbe sposa in Vaticano fu, in epoca carolingia, Adriano II, marito esemplare di Stefania, e padre di una figlia anch’essa domiciliata in Laterano.

Più che pietra di scandalo, dunque, la consuetudine di prender moglie nella Chiesa, si va scoprendo, in sede di revisione storica, come una scelta di vita consapevole, la cui liceità aveva radici nei versetti sia del Vecchio che del Nuovo Testamento.

Con assoluto rigore metodologico, Francesco Quaranta, lo racconta in un suo saggio “Preti sposati nel Medioevo” (anche in traduzione olandese), pubblicato dalla torinese Claudiana, che ricostruisce una storia rimossa, contestando ogni ideologica falsificazione interna alla paradossale e diffusa convinzione che il celibato del clero risulta, in radice, eticamente autovalidato dal fatto stesso d’esistere fin dagli albori del Cristianesimo.

Ma in questo saggio vi è anche qualcosa di più. Poiché mi è parso di cogliere un intendimento lucidamente consapevole, cioè mettere in campo una garbata ma ferma “provocazione” intorno a temi (tutt’altro che secondari) connessi al vincolo del celibato, quali l’amore coniugale, la famiglia e la donna, nel contesto socio-religioso della casa e della parrocchia.

Per cui attraverso il filtro, talvolta doloroso e sofferente, del divieto storicamente e teologicamente sancito, del prendere moglie, questo lavoro si fa apprezzare soprattutto quando annuncia, in rilievo e purtroppo senza svolgimento, l’importanza della concezione antica della famiglia del chierico, la singolarità del vissuto della “presbytera”, in quanto prima fedele della parrocchia, la cui famiglia doveva essere vetrina di santità e grazia, in quanto peculiare rappresentazione della chiesa “domestica”.

Lo storico, di origine calabrese, con all’attivo una specializzazione in lingua copta e siriana presso il Pontificio Istituto Orientale di Roma, passa in rassegna cinque apologie, testi di tradizione teologico ecclesiale, rimasti pressoché sconosciuti al grande pubblico.

Come in un pentagramma apologetico, dall’eterogeneità dei documenti, concepiti ed elaborati in epoche, luoghi e circostanze talvolta antinomiche, scaturisce il lungo filo di una logica, a tal punto sinfonica, da lasciar intravedere con una certa chiarezza la più sottile trama che, dalle origini fino ai giorni nostri, attraversa tutta la storia della Chiesa.

La proficua provocazione fa sorgere un’articolata domanda di senso: quanto e in che modo la “vexata quaestio” del matrimonio per i consacrati ha cambiato il corso millenario di una istituzione religiosa, alle prese con enormi problematiche morali (la sessualità) e poderose diatribe giuridico-economiche, specie in tema di patrimonio, beni diocesani, vicissitudine ereditarie, ancor più complessificate dall’eventuale presenza di figli e di nipoti?

A rimarcare la saggia chiosa di S. Gregorio, “meglio sposarsi che ardere”, concorrono, nell’ordine, Ulrico di Imola, “vescovo solo di nome, figlio nell’amore e servo nel timore”, con la sua “Lettera a papa Niccolò II”, datata fine 1059, in cui invitava il pontefice a diffidate dei suggerimenti interessati dei riformatori gregoriani che, schierandosi contro il clero sposato, lo avevano indotto a tramutare, nel testo sinodale di quell’anno, la canonica espressione latina “uxorem ducere” (prendere moglie) in “concubinam ducere”.

Il testo di un Anonimo scoliasta italo-greco, in difesa del matrimonio del clero, “Sulla paternità dei sacerdoti”, commissionato intorno al 1037 da Nicola di Reggio, vescovo metropolita della Calabria bizantina, in cui si afferma che “i sacerdoti non possono essere esclusi dalla partecipazione alla promessa di paternità, perché le benedizioni di Dio non si oppongono reciprocamente”;

Un’opera in latino di un Anonimo francese del secolo XI, ancora sul finire dell’800 stampata sotto forma di opuscolo a Berlino, con il titolo Trattato a favore dei preti sposati”, ove si perora la causa del matrimonio, citando lo stesso libro ufficiale della Chiesa Romana, il Liber pontificalis, ampio compendio di biografie di papi figli di preti tra i quali il quarantaquattresimo pontefice Bonifacio, il cinquantesimo Felice, nato dal prete Felice, il cinquantanovesimo Agapito, figlio del prete Gordiano, il sessantesimo Silverio, figlio di Ormisda, il settantesimo Adeodato, nato dal suddiacono Stefano, il settantantacinquesimo Teodoro, figlio di Teodoro, vescovo di Gerusalemme;

Un discorso in latino di Landolfo Seniore, scritto nella seconda metà dell’XI secolo, in cui l’autore, prete in Milano e di nobili origini, si scaglia contro la Pataria, il movimento religioso alleato dei riformatori gregoriani, ripartendo da un sermone in cui S. Ambrogio commentando Luca, sentenziava così: “Sappi che il vizio è della persona, non del sesso. Il sesso infatti è santo”;

E, infine, il quinto testo, “Sul matrimonio dei preti”, porta la firma di Nicola/Nettario di Otranto, monaco ellenofono di Casole, in provincia di Lecce, che nel rivolgersi ai “fratelli latini” li esortava a osservare la professione di fede del Concilio di Nicea: “Abbracciamo gioiosamente i divini canoni degli apostoli, quelli dei sei concili ecumenici e quelli dei concili locali, ed inoltre anche quelli dei nostri santi padri, in quanto ispirati da un unico e identico Spirito; e quello che loro condannarono, anche noi condanniamo”.

I testi che Quaranta ha rispolverato, ordinandoli a guisa di primo repertorio, colpiscono per la loro asciuttezza, la straordinaria dote di modernità linguistica, a dispetto di ogni accusa di vetustà, quasi la conferma che sotto la patina millenaria degli atti conciliari si nasconde una sorprendete vitalità della spirito umano.

Per cui questo libro non stanca anzi incuriosisce intellettualmente, poiché nelle sue pagine aleggia la libertà di un amore educato, in cui le emozioni non sono staccate dalla passioni, l’eros è frutto di spirito e ragione, non già preda d’imponderabili istinti e animalesche pulsioni.