La sindrome del “chi me la fa fare”: se la paura fa novanta negli enti pubblici tutto arranca

7 agosto 2019, 08:44 Opinioni&Contributi

Ci può sempre essere qualcosa che è stato aggiunto o travisato, un episodio ingigantito, deformato o male interpretato, dove può emergere un punto di vista speciale, un certo modo di pensare e di voler intendere le cose. Ma mi sento piuttosto “vicino” sia al luogo che al modo in cui si svolgono i fatti, interessato come può esserlo chi è anche azionista dell’azienda che amministra.


di Antonino Mauro Calabretta

Avverto toni indignati, forse più addolorati che adirati, di chi vuole scuotere le coscienze, svegliare un mondo che è sbagliato, spesso insensato e intorpidito, civilizzato e moderno nella produzione sul piano della vita materiale e della sua organizzazione ma, nello spirito, sostanzialmente imbarbarito.

L’organizzazione delle risorse umane, all’interno di un Ente Pubblico, passa attraverso una filiera di iniziative tese ad aumentare la produttività, la performance, ma anche e soprattutto la motivazione.

Un dipendente pubblico motivato è un valore aggiunto per l'Ente e di conseguenza per i cittadini ed oggi, invece di ragionare sul valore del dipendente e di come questo possa produrre, ci domandiamo se vi sia un vulnus giudiziario sull’agire amministrativo, una spada di Damocle che incide, inevitabilmente, sulla complessiva attività di un Ente.

Chi vive il calvario investigativo vive una passione che va, inevitabilmente, ad influire sull’intera organizzazione, sui risultati e sui colleghi, ed il leitmotiv tra i vari dipendenti, diventa un “ma chi me la fa fare?”, “Chi mi dice che pur facendo bene e onestamente, possa domani ritrovarmi a richiedere assistenza ad un avvocato, solo per aver dato il mio assenso alla più insignificante delle pratiche pubbliche?”

Quindi, quali regole adottare? Regole stringenti diaspora dell’immobilismo o regole flessibili diaspora di presunta corruzione: due anime, due diaspore, un binomio culturale dove la logica stessa delle linee guida continua ad avere i suoi riflessi perniciosi.

C’è da dire, però, che la produttività passa anche da una visione più complessiva. Ad esempio, al Nord quelli che masticano bene il concetto di organizzazione, hanno approntato un sistema che incentiva il dipendente a fare bene e farlo onestamente. Contro le furberie varie e contro la disaffezione al lavoro sono stati avviati progetti tesi a migliorare l’efficacia e l’economicità. In pratica, questi dipendenti ricevono un incentivo se fanno risparmiare i cittadini su tasse e consumi vari.

Progetti per l’ambiente, per il decoro urbano e per l’innovazione nel rapporto tra PA e cittadini. Un successo! Soddisfazione degli utenti e dipendenti motivati che lavorano extra orario e producono ricchezza per la comunità.

A Crotone, in Calabria, nel Sud più periferico, manco a parlarne. Dipendenti lasciati soli a digerire la sofferenza di una comunità abbandonata che recrimina, a giustezza, su un’opportunità dissolta, un successo mancato.

Serve coscienza, serve consapevolezza, serve tenacia. L’era dei solisti è finita. Individualismo arretrato dove i tuttologi ci dicono tutto e di più non sapendo nulla; quello che invoco è almeno il tentativo, se non la capacità, di cogliere l’aspetto complessivo di una cosa, vederne il fulcro e i margini, sia la centralità che le lateralità, metterla accanto ad altre con metodo e con lucidità, provando a riconoscerne le vere priorità.

A Crotone sono passati 13 anni di amministrazione e non abbiamo visto nulla. Ma qui dovremmo iniziare un’altra storia, magari attendendo la prossima volta o chissà, continuando ancora ad attendere la prossima Crotone.