Fortunato Seminara e L’Eredità dello Zio. Sul Sipario di un teatro del Sud rintocca l’ora locale di un letterato di Respiro Europeo

15 giugno 2019, 14:15 100inWeb | di Vito Barresi

A Polistena, nel nuovo Teatro in Zona industriale, per iniziativa della Fondazione intitolata allo scrittore calabrese, si torna a parlare della vita e dell'opera di Fortunato Seminara, grazie alla pubblicazione della sua più importante opera teatrale, finora inedita, "L'Eredità dello Zio", ora apparsa in edizione bilingue francese-italiano, "L'Heritage de l'Oncle"(Presses Universitaries de Strasbourg), con una rigorosa quanto 'liricamente' efficace traduzione di Erik Pesenti Rossi, docente presso l'Università di Strasburgo, sede con Bruxelles del Parlamento Europeo e del Consiglio d'Europa.


di Vito Barresi

Le tesi comparative e il nuovo taglio critico e interpretativo che Erik Pesenti Rossi scrive e presenta nella sua accurata prefazione aprono prospettive rinnovate per la lettura e la rivalutazione dell'opera completa dello scrittore calabrese di Maropati.

Il critico francese colloca Seminara in un ciclo storico ben preciso della vita italiana ed europea, un segmento titanico del Novecento, seguendo il percorso di conoscenza e iniziazione narrativa di un giovane romanziere che tra due guerre, sperimenta e tocca la materia del mondo e della storia, osservandone la radicale contrapposizione urbana di minacciosi quartieri di potere, armamenti, bellicismo, pacifismo, miti tragicamente infranti e speranze rivoluzionarie indomite e mai spente.

Aggirandosi tra 'building', grattacieli, monumentali palazzi storici, trasformati in fortezze e in torri di guardia dell'imperialismo trionfante, Seminara medita e ribalta la logica città/campagna, scegliendo un ragionevole ritorno nei luoghi della sua infanzia e giovinezza, trasfigurandola in una originale e personalissima visione del ritiro come antipazione del suo futuro, un omaggio alla filosofia di un 'Cincinnato' della letteratura italiana che scrive, sebbene mai di rimessa, dall'angolo profondo di una campagna del Mezzogiorno, tra gli impianti olivetati e gli agrumeti dolci e amari, dove sorgono, a fianco, le baracche di periferia di un popolo nuovo e diverso, le case di legno in un campo aperto e immenso, folla sofferente e dolorosa, abbandonata in un recinto forzato dove svaniscono la pietà e la solidarietà.

La 'picture' del paesaggio storico e sociale che ci offre Seminara, la sua intuizione e rappresentazione artistica del territorio ecologico e ambientale, nicchia di una biodiversità comunitaria ben specifica e mediterranea, a contatto diretto e brusco con la modernizzazione istituzionale e totalitaria del regime fascista, restò sospesa, trattenuta da certo pregiudizio ideologico imperante, poi persino rifiutata dalla ferrea griglia degli intellettuali di guardia comunista e per questo costituisce, forse similmente ma anche diversamente rispetto a Silone, un validissimo giacimento di confronto, lettura e comparazione per comprendere le aporie e le differenze che lo rendevano in qualche modo sospetto al canone letterario e intellettuale imposto a sinistra dal sinedrio culturale a controllato dal vertice stesso del Partito Comunista Italiano.

Il teatro, osserva Pesenti Rossi, è il termometro della storia, e quello di Seminara, prepotentemente costretto a scrivere nella morsa magnetica di autori del calibro di Pirandello, De Filippo e Ugo Betti, sconta il fatto che a quel tempo, sotto il fascismo, il teatro era morto perchè "la scène était occupée par un acteur qui n'en admettait pas d'autre".

Constatazione questa che pure non impedirà al drammaturgo calabrese di esercitare l'arte della composizione teatrale quale sua speciale e prediletta dimensione interiore, il lato immaginifico ma lucido, persino glaciale, del suo vero linguaggio letterario e della prosa che lo identifica quasi come una curiosa anteprima prefigurata di Aleksandr Isaevič Solženicyn.

Nei testi scritti tra gli anni '30 e gli anni '40 si ritrovano i capitoli, gli atti, i passi salienti e i dettagli appartati, l'atmosfera delle sordide camere ammobiliate, tradotti in tempi teatrali che si presentano come quadri vividi, ricchi di colori e nuances di scene sociali alla Maurice Halbwachs, ma anche come ombre di una psicologia collettiva dalle meschine e persino inconfessabili sfumature, tonalità umane, essenziale spiritualità quasi animistica, totemica dei protagonisti e delle fugaci ma pesanti comparse di sfondo.

Tanto che Seminara nella sua scrittura spigolosa e 'ghignante' riesce a riportare, nell'ordito artistico e morale oltre che nella suggestione del plot narrativo, la fabula che struttura le vicende, quasi in una sorta di registrazione dal vivo, di cui ci fa sentire il sonoro, i toni, l'acustica delle pause mute, nella loro etnografica e immediata espressione violenta, nella ruvidità di un dialogo senza intermediazioni concettuali, tanto da suscitare l'impressione e quasi la ripulsa critica verso una lingua tutt'altro che meravigliosa ma minacciosa, trogloditica, 'cannibalica' come chioserà Italo Calvino.

Seminara assomiglia molto, se mi è consentito il parallelismo, al pittore Ligabue.

Così come, quest'ultimo, Seminara non fu dal punto di vista estetico, nè formale e tecnico, un semplice naturalista che rinverdisce la cronaca fantastica e allucinata di Balzac, ma uno scrittore che attinse al palcoscenico, allo sfondo, allo scenario di un teatro che si chiama Natura, non solo vegetale e animale ma soprattutto specchio della commedia umana, a modo che lo scrittore di Maropati, ancora oggi, propone una sua prospettiva compositiva e narrativa di espressione e stampo 'naif', (che aveva ragione Pietro Nenni a volerlo giornalista dell'Avanti) di ambienti, contesti, marche provinciali e territoriali, in cui il naturalismo avvolge la vita sociale e la vicenda dei personaggi, senza mai essere un fondale staccato quanto un tutt'uno, un unicum in processione e progressione, con la storia narrata dentro luoghi sempre fortemente accecanti, connotati, segnalati e incombenti, sempre in chiari e scuri come nella Caverna di Platone.

Questi luoghi, autentici e rudimentali artifici della degradazione o dell'esaltazione di scorci e paesaggi bellissimi, perpetuamente incattiviti. per quanto espressione di un particolarismo geografico, sono stati ricostruiti minuziosamente ed esaltati nei propri angoli e dettagli dall'implacabile sguardo di una distopia che coinvolge, asserva e schiavizza il singolo quanto il molteplice umano collettivo.

Nel dipanarsi dei tre atti che compongono la 'piece' di Fortunato Seminara, la distopia del luogo appare come la più radicale e forte espressione, distorta e mutilata della storia, a tal punto che lo spessore dei protagonisti si affievolisce fino a scomparire completamente dietro il sipario che chiude le scene.

L'Eredità dello Zio, esaltando la memoria familistica e comunitaria in quanto unica vendetta, persino razionalmente cinica, nei confronti della più prepotente dimensione della storia nazionale italiana, si presenta quasi come una corrispondenza in contrappunto di gusto e di passioni con 'Il sogno dello Zio' di Dostoevskij.

Tanto da far trasparire in nitidezza un grumo di domande politiche sulla storia in un mosaico drammatico che rievoca il vissuto di un giovane giudice, il lessico famigliare di un vecchio avvocato scomparso, che con la forza e l'autoritarismo atavico, rude, violento e anti femminile, smaschera l'assenza di fondo e la crudeltà di un diritto positivo assente e distante.

Nel ritagliare e descrivere le figure attoriali con un 'understatement' narrativo formalmente impressionate, come fossero dei detenuti in un carcere, dei prigionieri alla sbarra in un aula di tribunale o di Corte d'Appello, non solo rinchiusi in se stessi, ma di una situazione solo in apparente libera uscita, egli fa apparire persino una venatura di misticismo, il mirabile superamento stilistico della prosa fatalista, sfumata in una sottile Mistica del dolore, in un ascetismo della sopportazione che non è un gioco ma un giogo sociale, una struttura della diseguaglianza e dello sfruttamento, senza alcuna ambiguità ma nella netta percezione di una gerarchia di posizioni sociali.

Il giudice, infine, sa qual è la strada da imboccare, esattamente quella da cui tanti altri calabresi ancora oggi fuggono lasciando indietro, alle loro spalle, nell'oblio talvolta ebete e ridanciano della nostalgia delle cose di casa, gli insediamenti urbani e rurali, i paesi fantasma, riabitati da zombie in turismo o in accoglienza, di disperati e perdenti, quelli che restano dannati e condanati per sempre in un luminosissimo affresco di piacevoli sensazioni metereologiche, tra abbandono interiore e solitudine morale.