Edimburgo, la Patagonia e l’industria del turismo



‘...battuta da tutti quanti i venti che soffiano, inzuppata dalla pioggia, seppellita nelle gelide nebbie marine che salgono da est e imbiancata dalla neve quando giunge dalle Highlands, spinta dal vento verso sud. Il clima è freddo e tempestoso in inverno, mutevole e inclemente d’estate, e un vero e proprio purgatorio meteorologico in primavera. Il debole di salute muore presto, e io, come un sopravvissuto, tra venti lugubri e pioggia battente, sono stato spesso tentato di invidiargli la sua sorte.’


Patrizia Muzzi | Cambio Quotidiano Social


Potrebbe sembrare l’incipit di un romanzo noir, invece si tratta della descrizione di Edimburgo così come la vedeva Robert Louis Stevenson nel 1878 (Edimburgo e tre passeggiate a piedi. A zonzo tra Scozia e Inghilterra, Elliot, 155 pagine, 17,50 euro). Forse il cambiamento climatico ha giocato a favore della capitale della Scozia, che mai come in questo periodo è ricca di sole e d’iniziative culturali, promettendo ai turisti splendide camminate tra vicoli ventosi e verdi colline.

Molti dei luoghi indicati da Stevenson sono ancora esistenti ed è forse una delle magie meglio riuscite di Edimburgo. Di certo, Stevenson non poteva immaginare che accanto al cimitero di Greyfriars ‘continuamente traboccante di garri’ e dove riposava spesso il boia, sarebbe sorto il vivacissimo The Elephant bar.

Edimburgo, città ricca di leggende orribili come quella del custode della banca di nome Begbie, ferito al cuore e lasciato morire immerso nel suo sangue a due passi dall’affollata High Street. O quella di Thomas l’Angelico, bruciato vivo col suo bastone, e di sua sorella, per la quale si usò più gentilezza impiccandola. O quella delle due sorelle nubili che dopo avere vissuto insieme per anni, presero ad odiarsi così tanto da dividere la casa in due con un gesso (vi ricorda qualcosa?).

Mentre leggevo divertita le pagine di questa sorta di diario, ho trovato in rete un articolo di Paolo Pecere sulla Patagonia (La Patagonia è un racconto mancato, il Tascabile, 17/7/2017). La Patagonia rappresentava per molti di noi l’Iperborea: una terra leggendaria, lontana e misteriosa, terra scarsamente accessibile e della quale ci siamo innamorati anche per merito di grandi scrittori.

‘…la consapevolezza nuova e importante è che non c’è un lettore da istruire: sta per arrivare anche qui il turismo di massa, e prevedendo che i sopralluoghi e gli scatti fotografici annulleranno l’aura esclusiva dell’esploratore, Chatwin sfodera la letteratura e tesse la sua rete di racconti. Da cui, adesso, è difficile districarsi.’ - osserva Pecere - Mentre nessuno si confessa visitatore una tantum, incontriamo diversi turisti-giornalisti, turisti-scienziati-amatoriali, turisti-collezionisti (che “l’anno scorso ho fatto l’Amazzonia e il Delta dell’Okavango”, mentre le foto, flap flap, scorrono sullo smartphone), e infine gli immancabili trentenni nordamericani e nordeuropei che si sono licenziati e non sanno se e quando torneranno.’

Ci sono due fattori che entrano in gioco nel suo viaggio: lo spaesamento che si prova nel ‘non’ ritrovare l’immagine che ci si era costruiti nella mente di quel determinato luogo geografico e quello che Marco D’Eramo identifica come il ‘deprezzamento simbolico dell’esperienza ormai accessibile’.

Quando apro Facebook nel mese di agosto e vedo tutte le foto dei vacanzieri, immagino che prima o poi il dio web le vomiterà addosso ai propri fedeli come punizione.

Un mio amico dice che i miei non sono viaggi ma gite, perché sono brevi. Io amo vedere musei, lui ama stare in giro a fare delle ‘street’ o foto in strada. Io cerco di documentarmi prima di partire, lui parte e basta. Io devo trovare un perché per andare, lui lo cerca per tornare.

Chi è più viaggiatore? Chi ha ragione?

Nel suo ultimo libro Il selfie del mondo (Feltrinelli, 256 pagine, 22euro), D’Eramo prova a fare ordine. La risultante della nostra isteria collettiva, di questa battaglia tra turisti e viaggiatori, selfer e grandi avventurieri, è che l’industria del turismo cresce anno dopo anno.

‘Perché guardiamo con sufficienza chi si scatta un selfie davanti alla Torre di Pisa, attribuendogli lo stereotipo del turista? Siamo poi così diversi da quel turista quando andiamo in vacanza a Parigi, a New York o a Tokyo, sentendoci dei viaggiatori mentre ci affanniamo a visitare tutti i monumenti “imperdibili”? Non sarà forse del tutto aleatoria la differenza tra turista e viaggiatore, in un mondo nel quale l’esistenza di ciascuno è dettata dal ritmo del capitale e del lavoro? Come mai, allora, impieghiamo il nostro tempo libero in un’attività che disprezziamo?’, si domanda D’Eramo.

La sensazione di unicità dell’esperienza si dissolve.

Sono mai esistite davvero la Patagonia di Chatwin, l’Edimburgo di Stevenson o la Lisbona di Pessoa?

Mentre salgo verso l’Arthur’s Seat guardo i sassi che calpesto, aspettando il momento in cui sarò finalmente sola a godermi il panorama ma al mio posto, proprio davanti a me, trovo quattro belle ragazze nordiche che non smettono di scattarsi selfie in posa.

Volevo esserci io su quel sasso! Nulla da fare: queste non mollano e nel frattempo sono arrivati altri turisti. Non vedrò mai da sola quel panorama in quel punto preciso. Mi accontento. Guardo attorno a me, scatto una panoramica con il cellulare (guarda un pò).

‘È degno di una salita, anche in estate, per guardare giù verso il loch da Arthur’s Seat; lo è dieci volte di più in un giorno di pattinaggio. La superficie è fittamente coperta di persone che si muovono con facilità e rapidità e che si inclinano in un migliaio di graziose figure oblique; la folla si apre e si chiude, e continua a ondeggiare da un capo all’altro come dell’acqua e il ghiaccio scricchiola fino a mezzo miglio di distanza, con le lame che volano.’

Stevenson, mi stai dicendo dieci volte di più che in estate? Dovrò tornare in inverno, forse le ragazze non ci saranno. Chissà se avrai immaginato di vedere pattinare il reverendo Robert Walker da lassù…