D’Alema salvi la Costituzione. Il leader Maximo alla guida del fronte del No

Fausto Anderlini | Sociologo
Cambio Quotidiano Social


Diciamoci una prima verità: le 'riformuzze' renziane, cui Napolitano, singolare 'custode' della Costituzione, ha fatto da mallevadore, non sono una deviazione dal percorso intrapreso sin dai '90. Semmai lo compiono, seppure fuori tempo massimo. Discrasia tutt'altro che secondaria. I dibattuti tentativi di riforma del ventennio trascorso una qualche ragione l'avevano. I soggetti politici della prima repubblica erano franati e incombeva l'urgenza di ricostruirli legittimati nel mutato quadro bipolaristico. Adesso quell'urgenza, ancorchè enfatica e poco meditata, ha mutato di segno.


Non sono andato a Roma, sebbene abbia grande simpatia per il leader Maximo. In lui si rispecchiano nella forma più plateale e insieme intrigante pregi e difetti della generazione politica alla quale appartengo. E' vero che il suo percorso non è stato lineare. Prese la segreteria del Pds per bloccare la deriva radico-democratica ma poi subì il fascino della terza via. Le sue dimissioni da premier furono un atto di incomparabile vanità, ma la vittoria dell'Ulivo nel '96 fu uno straordinario successo della sua capacità di fare coalizione (non è vero come ancora in tanti urlano che le vinse Prodi, quelle elezioni: fu D'Alema a metterlo nelle condizioni di vincere e fu ancora D'Alema, con la sua capacità di manovra, a salvare nel '98 il centro-sinistra dalla permalosa presunzione del prodismo....). E' vero che i 'dalemiani' (adesso transitati in gran numero nel seguito del fiorentino) si sono rivelati una razza disgustosa. D'alema si è sempre circondato di mediocri morali (amava dire 'meglio un cretino fedele che un cretino indipendente') ma si è anche preso la responsabilità dell'appartenenza al proprio campo, al quale ha consegnato per l'eternità il suo ego giustamente smisurato.. Ancora adesso fa lotta politica, dunque esiste, senza dover scrivere romanzucci affettati, editoriali, commenti, senza fare interviste ai calciatori, ecc.....E' politico tout court, come è vissuto, e disprezza il dopolavoro. Gingillò come un apprendista stregone attorno alle 'riforme istituzionali', ma alla fine non ne derivò gran danno. E siccome ha saputo far mente razionale a quella storia adesso, fra tutti, è quello che più legittimamente può prendere la guida del fronte del No. Con una radicale inversione di indirizzo, rispetto alle pratiche del passato. E in ogni caso, per chiudere il panegirico, non c'è errore che il Maximo abbia fatto nel quale, nel mio piccolo, anch'io non mi riconosca.


Sicchè diciamocela tutta questa sgradevole verità. Mentre per la destra le 'riforme' (più o meno in linea con quel che adesso passa il convento) avevano una ratio (decostituzionalizzare i diritti sociali e aprire la strada a un modello plebiscitario), per la sinistra il dibattito sulle riforme è stato un ramo morto, un equivoco, una psuedo-innovazione evocata per surrogare la sua crisi di rappresentanza, un'invenzione ideologica per coprire un vuoto (in parte coincidente con una crisi da compimento dello Stato sociale). Infatti mentre c'era bisogno di tonificare la macchina amministrativa non c'era alcun bisogno di riforme costituzionali.


La forza di una costituzione sta nella sua comprensività. Cioè nella capacità di resistere alle anomalie assorbendole nel suo alveo. Incrementando la sua complessità. La Costituzione repubblicana ha offerto le sponde per reggere e spuntare al proprio interno le pulsioni eversivistiche della destra berlusconiana e fascio-leghista. Non solo: è stata in grado di recepire nella propria articolazione un sistema elettorale a orientamento maggioritario uninominale e bipolarizzante (il Mattarellum) e di esautorare attraverso i suoi organi di controllo il Porcellum.


L'unico approccio riformatore sensato doveva essere di natura 'incrementale' non 'strutturale'. La Costituzione andava cioè non 'cambiata', bensì 'emendata', 'adeguata' al margine. Et cum grano salis. La vittoria del No, come ci si augura, non provocherà alcuno sfracello: ripristinerà piuttosto questa misura di rispetto. Avanti adagio, slow, e coi piedi di piombo.


C'è stato un momento in cui per rinfrancare il proprio passato di forza di cambiamento, 'riformista' se non rivoluzionario, si è cominciato a delirare facendo a gara nella corsa verso il precipizio dell'innovazione. Sino a perorare la rinascita dei soggetti politici tramite l'ingegneria elettorale. Invece mi sento di dire, ora, che per cambiare qualcosa sensatamente, bisogna avere il coraggio di proclamarsi 'conservatori'. Come già Berlinguer aveva intuito. Mannheim in un saggio sul conservatorismo ha spiegato bene come la sua efficacia non solo non escluda il cambiamento, ma lo imponga nella misura necessaria. Per cambiare qualcosa bisogna sapere cosa conservare, cioè avere cognizione del fulcro dell'equilibrio del sistema. Pareto, gran conservatore, ha posto la forza degli aggregati, cioè gli agenti della persistenza, come criterio di efficacia dello spirito delle combinazioni, cioè del cambiamento.


Eppure il passaggio di fase era evidente. Il riformismo, proprio in quel tempo, era traslato nei lidi del neo-liberismo e delle sue ierocrazie tecnocratiche. Lì è passata la nuova egemonia. Lì, davanti al nemico che parla il tuo stesso lessico, si è creato uno sconcerto e poi un collasso. Un riformismo di destra a tutto azimut, con lo scopo di restaurare lo status quo ante le conquiste dello Stato sociale. Trattando i diritti del lavoro e gli istituti della rappresentanza come i liberali e i socialisti trattavano gli stande e i privilegi nobiliari. Avvenuta questa traslazione bisognava (bisogna) avere il coraggio di proclamarsi conservatori. Bisognava reagire con prontezza: prendere la sintassi del nemico, cioè della conservazione, e farla propria, alle proprie condizioni. Invece ci si è fatti ammaliare dall'innovativismo pseudo modernizzante pensando di potere reggere la gara nel 'governare' la globalizzazione. I nuovi riformatori hanno preso la palla al balzo. Esaurite le cartucce a loro disposizione (prima le destra neo-liberista, poi il tecnocratismo un po' scemo di un tipo come Monti) hanno preso il piccione nella rete: il Pd. C'è perfino gente che si proclama così 'riformista' da rivendicare qualsiasi cazzata 'purchè qualcosa si muova'. In un mondo in cui tanti si muovono senza senso, star fermi è quantomeno un modo di reagire alla stupidità.


Una buona conservazione, del resto, è preferibile a qualsiasi confusionarismo. Le riforme del bicameralismo ed elettorali, ancor prima di potersi tradurre in una qualche forma di autoritarismo, saranno innanzitutto generatrici di un lungo e farraginoso periodo di disfunzioni, incertezze, contenziosi, indeterminatezze. E questo, semmai, peserà come una zavorra sul sistema Italia, ben più che il bicameralismo perfetto.


Perciò quello che mi auguro è che nel raduno convocato da D'Alema si levi alta e chiara la voce della conservazione. C'è un vasto blocco conservatore da aggregare: dall'Anpi alla Cgil a innumerevoli forze titubanti e confuse. Con una parola d'ordine: conservare la democrazia costituzionale riformare il capitale.