L’IMPRESA ITALIANA ALL’ESTERO NEI CERCHI DELLA MORTE

VITO BARRESI
CAMBIO QUOTIDIANO SOCIAL ONLINE


Quanto è simile un terrorista orientale, africano o islamico, di oggi a un pirata del passato che infestava il Mar Mediterraneo uccidendo, saccheggiando e impedendo commerci e traffici economici, in sintesi minacciando nell’essenza il supremo comando, l’indiscutibile potere e la sicurezza dell’antica Roma? Scriveva Cicerone che “il pirata non rientra fra i legittimi nemici di guerra,
 ma è il comune nemico di tutto il genere umano”. Come dire che il terrorismo non è guerra ma in qualche modo, purtroppo in che modo orribile, ne giustifica la permanente preparazione ed opzione, a tutto favore della gigantesca e onnipotente economia bellica mondiale. Il terrorismo attuale, così com’è, dietro il belletto fumogeno che vuole propagandare urbi et orbi una propria versione idolatrica del male che affliggerebbe l’ordine internazionale, in realtà mostra sempre il ghigno in faccia di un’arma affilata e raffinata. L’ennesima messa in campo dalle più spietate logiche concorrenziali che animano come un mantra diabolico il ritmo circadiano dei mercati globali. E lo fa seguendo il profilo di un disegno che taglia, cuce, ricuce, sagoma e modella la mappa e le zone d’influenza dell’economia mondiale, graduandone il tasso d’instabilità e variabilità dei suoi confini, lo stesso che consente o impedisce di geo-localizzare nuove imprese, grandi produzioni manifatturiere, oligopoli ristrettissimi sulle fonti energetiche e le risorse sia umane che naturali. Alla luce di questa evoluzione occorre riconsiderare il concetto stesso di ‘terrorismo contemporaneo’ per scorgerne i fattori che lo determinano, al fine di sconfiggerlo e debellarlo dal contesto universale della comune famiglia umana. E sta di fatto che con la sua presenza attiva in varie aree del mondo, questo ‘terrorismo contemporaneo’ stabilisce una diversa geografia degli insediamenti, disegna la cartografia dei territori insediativi, mette materialmente i picchetti armati e vigilanti ad un immenso piano regolatore generale delle varie zone industriali e produttive della terra. Dunque, un Piano Regolatore Economico di dimensioni planetarie che potrebbe essere penalizzante e proibitivo per il sistema delle imprese italiane e dell’Unione Europea.


Nel conflitto geopolitico che va sotto il nome di terrorismo la categoria degli italiani più esposti non è più quella dei turisti bensì degli imprenditori. La statistica in merito si è impennata tragicamente con la strage di Dacca. Certo può confortare l’ascolto della narrazione politica di Matteo Renzi, come pure quella del suo Ministro degli esteri Paolo Gentiloni in tema di internazionalizzazione delle imprese italiane. Tuttavia le loro risposte e i loro racconti appaiono purtroppo tardivi e post datati come un assegno in bianco sulla fiducia della buona stella italiana.

Essere consapevoli che si può morire, che si può perdere in sede di scambio e giochi economici internazionali è oggi pari a una prima presa di coscienza delle enormi difficoltà in cui si potrà trovare l’economia italiana, nei termini della dipendenza e di una deprecabile sudditanza ad altri. Neanche i commenti ex post all’eccidio del Bangladesh, potranno modificare questa nuova realtà in cui si trova l’economia italiana esposta al rischio di una ritirata dell’imprenditoria tricolore dai mercati esteri. Ancora una volta ciò che è mancato è stata una lettura diversa e nuova del fenomeno del terrorismo nell’epoca della globalizzazione, in quanto fenomeno molto diverso dai passati terrorismi ideologici e nazionalistici di un Novecento ormai lontano dall’attualità.

Infine ci auguriamo che il Presidente del Consiglio abbia già preso atto che se la lista degli italiani uccisi in terra straniera si allunga orribilmente, ciò probabilmente è anche dovuto a qualche difetto d’intelligence. I Servizi Segreti italiani rischiano infatti di fare la figura della famosa gallina di Cochi e Renato, cioè un animale che ‘non è intelligente, lo si capisce da come guarda la gente”.

Occorre andare oltre gli schemi convenzionali di una lettura soltanto statalista e politica del fenomeno della guerra commerciale terroristica. Un tempo i Romani usavano la categoria delle pirateria e ne fecero anche un passo importante della loro storia tra la Repubblica e l’Impero, persino adottando specifiche Lex Piratiche che riguardavano le province fuori dal territorio dell’Urbe.

Fabula docet, la storia insegna. Per questo aggiungo una vera ‘narrazione’ che riletta suona quanto mai significativa e ricca d’insegnamenti:


“preso in ostaggio dai pirati, il giovane Cesare li schernì, li insolentì e li diffidò, promettendo loro la condanna a morte non appena fosse tornato libero. Era stato catturato in mare nel 75 a.C. mentre navigava in pieno inverno verso Rodi, ove doveva frequentare un corso di retorica. Ma non era solo uno studente venticinquenne: possedeva già un’esperienza di guerra contro i pirati, avendo partecipato tre anni prima alla vigorosa spedizione navale condotta dal proconsole Publio Servilio Vatia contro la Cilicia. Sapeva bene, pertanto, di che pasta fossero fatti i suoi carcerieri, e non ebbe dubbi su come comportarsi. Non appena il legno a bordo del quale si trovava sequestrato si ormeggiò nel porto di Mileto, egli inviò i propri servitori a terra per farsi prestare tutto il denaro occorrente. In poco più di un mese, riuscì a mettere insieme una somma ingente. Consegnò ai pirati l’importo stabilito per il proprio riscatto. Tornato libero, si procurò diverse navi. Le armò. Con quella flottiglia salpò di notte da Mileto alla ricerca dei pirati. Li sorprese alla fonda in una caletta poco lontano. Li assalì, ne catturò un buon numero, li portò in catene a Pergamo e li fece mettere a morte, proprio come aveva preannunciato.
Questo brillante successo personale fu però pressoché irrilevante a fronte dell’enorme dimensione assunta dalla pirateria in quel periodo. Cos’era dunque successo? Come mai si era giunti a tale situazione?”