Marco Pantani il campione vittima della Camorra

15 marzo 2016, 08:10 100inWeb | di Vito Barresi

Fu Vallanzasca a dire che un camorrista di grosso calibro gli avrebbe confidato 'che il Giro d'Italia non lo vince Pantani, non arriva alla fine. Perché sbanca tutte 'e cose perché si sono giocati tutti quanti a isso.' La Camorra avrebbe fatto perdere il Giro a Pantani. Cambiando le provette e facendolo risultare dopato. Questa cosa ci tiene a saperla anche la mamma'. E quando il parente domanda "Ma è vera questa cosa?", la risposta è "Sì, sì, sì… sì, sì". "Le parole di questa intercettazione fanno male, è una conferma di quello che ha sempre detto Marco, cioè che l'avevano fregato. Io mio figlio lo conoscevo molto bene: Marco, se non era a posto quella mattina, faceva come tutti gli altri. Finalmente la gente ora potrà dirlo, anche se tanta gente sapeva che l'avevano fregato. Io sono molto serena oggi: finalmente sono riuscita e sono riusciti a trovare queste cose", ha commentato sempre a Mediaset la madre di Pantani, Tonina. A Forlì è dunque in corso una delle due inchieste riaperte a distanza di anni su Pantani. A Rimini si attende la decisione del Gip sulla richiesta di archiviazione della Procura nell'inchiesta bis sulla morte.

E’ sempre amaramente bello, nostalgicamente struggente, tornare a parlare di Marco Pantani. Anche quando lo si fa con la macchina teatrale con cui Marco Martinella ha messo in scena una veglia funebre che come in un pianto antico sgrana il rosario di una vita, i passi, le fughe e le scalate del grande ciclista romagnolo, il rampeur che parlava un’altra lingua e veniva dal mare. Per partecipare al rito catarchico messo in cartellone all’Arena del Sole di Bologna (Pantani, 12-13 marzo di Marco Martinella, ideazione Marco Martinelli e Ermanna Montanari) ho frugato nella polvere di vecchie carte articoli apparsi su ‘Avvenire’ nella rubrica ideata da Alberto Caprotti ‘Tour Volando’ e poi compiegate in un libro ‘Roland Barthes al Tour de France’, scegliendone un istante, luce e felicità ancora brillanti, purtroppo affievolite dal doloroso calvario di un uomo solo, tradito e abbandonato dalle regole infernali di un sistema sbagliato. Ricorrendo al ‘Lessico dei corridori’ scritto nel 1954 da Roland Barthes, Marco Pantani altro non sarebbe stato che l’emulo stilistico del grande Gauld. Con quel campione del passato la nuova stella dello sport italiano condivideva molte cose, tra le quali le straordinarie doti di scalatore, autentico ‘arcangelo della montagna’, l’ambivalente dote di una insostenibile, in salita, leggerezza del fisico e della ruota. Il suo trionfale ingresso nel gotha del ciclismo internazionale, l’esaltante quanto promettente noviziato sulle strade del Tour sembrò restituire un primo profilo, la prova d’artista di un piccolo campione allora in fase di maturazione. Quasi sull’abbrivio di un ricordo felliniano, Pantani apparve nella dimensione poetica di un ciclista ‘leopardiano’, più vecchio della propria giovinezza, simbolicamente calvo come la cima del monte Ventoso. Questo autentico Nuvolari della bicicletta, rapido e beffardo, capace di stare per intere giornate a superare tornanti, sempre coinvolto in funamboliche cadute, sembrò testimoniare con sufficiente nitidezza che oltre la sagoma del campione extraterrestre, a quell’epoca impeccabilmente impersonificata da Miguel Indurain che vinceva senza sudare, ci volle purtroppo poco per comprendere che non c’era più tempo né chilometri per il vecchio ciclismo fraudolentemente sostituito dall’esclusivo lavorio tabellare di medici e grandi sponsors, meccanici e direttori sportivi. La forte valenza umana messa in evidenza da un giovanissimo corridore ferito, lo stesso che in lacrime implorava di abbandonare l’asfalto alpino, raggiunse il cuore della gente, proprio portando a termine la scalata della più alta e difficile montagna del Tour. Poi questi valori furono travolti dalle logiche e dagli interessi senza scrupoli, dettate ogni giorno e ogni notte dalle menti e dai team esecutivi del progetto unico, indiscutibile e vincente, mai sazi di perfezionare con trucchi e artifici ‘scientifici’, un prototipo di ciclista costruito in laboratorio e messo cinicamente su strada.


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Dove nessuno poteva osare, gloria per Pantani sul tetto del Tour. Fu il rap di un campione ritrovato, il canto a squarciagola di un atleta appassionante. Verso i 2000 metri dell’Alpe d’Huez, tre quarti di megatoni d’ossigeno diluiti in un’atmosfera frizzante, era come la sua casa. Dopo due anni di disavventure il figliol prodigo ritornava, inaspettato, sul traguardo più duro. Poche parole. Solo una parabola. Il ciclismo secondo Marco spaccò il Tour e ne svelava i valori veri. Nelle fauci d’infervorati tifosi globali, il fiato del campione ha fatto da battistrada. Rigorosamente in ordine, lo seguirono i giganti della strada. Già dalla prima rampa della salita, di sbieco. Pantani si staccò dalla luccicante orbita dell’orecchino di Ulricht. E poi che dire di quella grimpa di Virenque. I francesi strabiliavano per lui. Ma poi quest’attore che pure ci marciava, finiva sempre per perdere quota e pedalare di spalla. La sua bici era al titanio ma le gambe, ahi le gambe, preferivano meglio ridotti scartamenti. Marcovaldo invece fu davvero una fiaba. Partiva piano e in compagnia. Poi si staccava e volava via. Le squadre facevano in pianura il loro gioco. Obiettivo:imbottigliare sull’abbrivio la Mercatone di Pantani. Marcovaldo lo sapeva ma non ci stava. Senza elmetto ecco spiccare la sua zucca pelata. La prima curva è un macigno sui suoi polpacci. Il branco si sgretola. Le ammiraglie distribuiscono un pieno di boracce. Tour di crisi e confusione, i lenti faticatori del pedale tennero un’andatura laterale. Senza fretta il passo di Ulricht sembrava quello di un piccolo Indurain. Incollato in sella non si alzava mai dai pedali. Si capiva che voleva arrivare a Parigi senza noie. Per questo non forzava alla chicane. La frescura urbana della bella Grenoble ormai giaceva implacabilmente in pianura. Marcovaldo era da solo e allora si mise a salire. Pedalava tonto discretamente osservato dalla Lancia Rossa dei padroni del Tour. Varcò l’ultimo chilometro e si vide che era davvero un campione di muscoli e di cuore. Scalava ancora in forma temendo l’agguato della sorte. Come un Achille dei bicicli, le cadute erano il suo debole tallone. Fu il traguardo di un giorno tanto atteso. Marcovaldo Pantani era un campione minimalista. Non ci stava mai alla grande sceneggiata. Entrava dentro la vittoria con passo discreto. Poi alzava finalmente le mani dal manubrio. Il rap scalava lento con un pianto di felicità: “Oh Signore dell’universo, ascolta la preghiera di questo tuo figlio disperso…” Infine la dedica, alla memoria di un amico perduto, Fabio Casartelli, martire di questo sport che fu rapsodico e bellissimo, che come un angelo custode in quella tappa aveva passeggiato con lui in bicicletta. Portato in trionfo sulle magiche ruote del nostro indimenticabile Marcovaldo Pantani.


The parable of Marco Pantani leopardian cyclist - It 's always bitterly beautiful, yearning nostalgically, to talk back to Marco Pantani. Even when you do it with the theatrical machine with which Marco Martinella has staged a wake that like an ancient weeping shells rosary of a lifetime, the steps, the joints and climbing the great Romagna cyclist, who spoke on rampeur another language and came from the sea. To participate in the ritual catarchico put on the bill at the Arena del Sole in Bologna (Pantani, 12 to 13 March Marco Martinella, design Marco Martinelli and Ermanno Montanari) I rummaged in the dust of old papers articles published in 'Future' in the phone book conceived by Alberto Coats 'Tour Flying' and then compiegate in a book 'Roland Barthes in the Tour de France', choosing a moment of light and still brilliant happiness, unfortunately weakened by the painful ordeal of a man alone, betrayed and abandoned by the infernal rules of a system mistaken. Resorting to the 'Lexicon of the runners' written in 1954 by Roland Barthes, Marco Pantani another would not be the stylistic rival the great Gauld. With that past champion the new star of Italian sport shared many things, including the extraordinary qualities as a climber, authentic 'mountain Archangel', the ambivalent gift of an unsustainable, uphill, lightness of the physical and the wheel. His triumphant entry into the elite of international cycling, the exhilarating how promising the novitiate on the roads of the Tour seemed to return a first aspect, the artist proof of a small sample, then in the process of maturation. Almost sull'abbrivio of a memory Fellini, Pantani appeared in the poetic dimension of a 'Leopardi' cyclist, older of his youth, symbolically bald as the summit of Mount Ventoux. This authentic Nuvolari bicycle, quick and mocking, able to stay for days to overcome hairpin bends, always involved in acrobatic falls, seemed to bear witness with sufficient clarity that beyond the outline of extraterrestrial sample, at that impeccably personified by Miguel Indurain who won without sweating, it did unfortunately little that there was no time or kilometers for a new tourism tragically reduced to the exclusive workings glabellar doctors and major sponsors advertising, mechanics and team managers. The strong human values ​​of his personality put out by a young rider injured in tears begging to leave the Alpine asphalt reached the hearts of the people, just by completing the highest climbing and difficult mountain in the Tour. Then these values ​​were overwhelmed by the logic and interests unscrupulous dictated every day and every night from the minds and executive team of one project, and indisputable winner, never satisfied with the improved tips and tricks 'scientific' a prototype of cyclist constructed in the laboratory and automatically put on the road. _vitobarresi @ CamBioQuotidiano