Csv provinciali, un volontariato organizzato e non dei singoli

Catanzaro Attualità

Il carcere è da sempre considerato come luogo di espiazione, carico di sofferenze e privazioni psicologiche. Ma dalla società civile, anche a seguito della recente condanna dell’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei Diritti Umani dovuta ad una serie di criticità, viene la richiesta di una maggiore attenzione nei confronti della vita carceraria che non è da considerarsi “altro” dalla società.

Il volontariato svolge un ruolo fondamentale per il recupero ed il reinserimento sociale dei detenuti – c’è anche la legge 354 del ’75 a riconoscerlo – ma c’è bisogno che il volontariato si dia un’organizzazione davvero incisiva nell’attivazione di processi inclusivi.

Il seminario sul ruolo del volontariato penitenziario in Calabria – tenutosi venerdì al Grand Hotel Lamezia di Sant’Eufemia grazie all’iniziativa congiunta dei cinque Centri di Servizio calabresi – è stato pensato per dare sfogo a questa esigenza, perché mai come in questo momento storico c’è bisogno di un volontariato consapevole che lavori in sinergia e non più in concorrenza con l’amministrazione penitenziaria.

Esistono, tuttavia, sostanziali differenze in fatto di numero di volontari operativi al Sud rispetto al Nord: nel 2011, come ha fatto notare Piero Caroleo, coordinatore regionale dei CSV, degli oltre 11mila volontari che operano nelle carceri italiane, solo il 20% risiede al Sud. In Calabria, addirittura, le persone autorizzate a svolgere attività di volontariato ex art. 17 sono solo 106, mentre il numero di assistenti volontari che collaborano con l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna per le pene alternative al carcere scende spaventosamente a due.

Restringere la propria attività tra le sbarre è, però, pura illusione: don Silvio Mesiti, cappellano della casa circondariale di Palmi, si è detto convinto del fatto che qualunque tipo di attività vada integrato con l’area educativa e sociale, poiché è all’esterno che viene a formarsi la cultura della sopraffazione, ed è lì che serve fare prevenzione per evitare che si arrivi a delinquere. Per aiutare il detenuto occorre capire chi è e che tipo di contesto familiare ha alle spalle: ed è nell’educare la società civile all’accoglienza che il volontariato ritrova la sua primaria funzione.

Sinergia necessaria tra amministrazione penitenziaria e volontariato | E’ indubbio che il volontariato organizzato abbia maggiori possibilità di raggiungere risultati rispetto a quello meramente assistenziale. Ed anche l’amministrazione penitenziaria ha bisogno del volontariato coordinato per fare in modo che il detenuto non torni più a delinquere una volta scontata la pena: ma fin quando non si finirà di considerare la “questione carcere” come avulsa dalla società – ha sottolineato Rosario Tortorella, provveditore vicario dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria – non si potrà fare prevenzione, ed evitare così che al carcere si arrivi. “E’ importante non avere un’idea preconcetta del carcere e del modo di fare volontariato, perché il carcere appartiene a tutta la collettività”, ha dichiarato Tortorella.

I provvedimenti che si stanno discutendo all’interno della commissione Palma vanno nella direzione di un ampliamento delle occasioni di vita in comune, grazie anche alla disponibilità dei volontari, ma ciò non toglie che operare all’interno delle carceri sia complicato, proprio perché diversificati sono i tipi di reato che vengono commessi. Ci sono poi problematiche che rendono la vita detentiva ancora più gravosa: basti pensare che, dei 2800 detenuti nei dodici istituti di pena calabresi, 212 sono in carico al servizio sanitario nazionale in quanto tossicodipendenti, 736 sono quelli condannati per reati diversi da quelli della criminalità organizzata ed il 32% è in attesa di giudizio, e quindi teoricamente innocente fino alla sentenza definitiva.

Quando il direttore della Casa Circondariale di Catanzaro, Angela Paravati, definisce il carcere come un’organizzazione strutturale complessa per la presenza di varie figure professionali, ed il volontariato che si fa all’interno non paragonabile a quello comune, lo fa quindi a ragion veduta. Mai come nel volontariato penitenziario occorre specializzarsi, perché non tutti i detenuti sono gli stessi: è un volontariato “verso i cattivi”, che soprattutto in Calabria risente dei pregiudizi familiari, e che può essere oggetto di strumentalizzazioni con conseguente mancato rispetto delle regole carcerarie.

Dal punto di vista dei volontari che hanno deciso di confrontarsi con questa realtà, l’esigenza di operare in gruppi riconoscibili e coesi e non più singolarmente, ed in rete con le associazioni che operano all’esterno per il reinserimento sociale, con le associazioni di immigrati e con le comunità terapeutiche, è diventata ormai consapevolezza. Basta con il ruolo di supplenza che è stato loro cucito addosso: è ora che si riapproprino della funzione di accompagnamento che anche il Coordinamento dei gruppi di Volontariato Penitenziario (Seac) riconosce, come ha avuto modo di chiarire la presidente nazionale Luisa Prodi. E nell’espletamento della sua attività di relazione, il volontariato non può operare a prescindere dalla formazione continua, in un rapporto di collaborazione con gli operatori e gli agenti di polizia penitenziaria.

Della stessa lunghezza d’onda Alberto Mammolenti, referente regionale della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, che ha rimarcato l’importanza della modifica dell’art. 78 della legge del ’75 per far sì che il volontario venga riconosciuto in quanto appartenente ad un’organizzazione, all’interno della quale acquisire l’esperienza e la conoscenza delle regole necessarie per operare. Ci vuole infatti una preparazione notevole per aiutare una persona tra le sbarre che chiede di trovare un senso alla sua vita ed alla pena che sta scontando. E l’aiuto va ben oltre la detenzione, perché, una volta scontata la pena, il detenuto, senza una solida rete familiare alle spalle, non alcuna possibilità di farcela. Si dovrebbe ragionare, dunque, sull’opportunità di prevedere strutture alternative e centri di accoglienza, magari con l’utilizzo dei beni confiscati.

Auspici e proposte | Dopo le testimonianze rese da alcuni volontari che operano da tempo all’interno degli istituti di pena di Paola, Laureana di Borrello, Locri e Catanzaro, dal funzionario della Regione Calabria Cesare Nisticò è stata avanzata la proposta di creare più organismi (consultivo, operativo ed esecutivo) che facciano da “ponte” tra le associazioni, gli istituti di pena e le istituzioni.

E Mario Nasone, presidente del CSV di Reggio Calabria, ed in rappresentanza dei cinque Centri di Servizio, ha raccolto la richiesta – assieme a quella di Prodi e Mammolenti di provvedere ad un monitoraggio dei detenuti una volta liberi, e di non trascurare le loro famiglie di origine, che spesso pagano il prezzo più alto – della costituzione di un tavolo tecnico tra le parti per gettare le basi ad una nuova politica regionale di inclusione sociale.

“Le politiche di inclusione sociale convengono alla comunità, sia dal punto di vista economico che sociale – ha dichiarato Nasone - Non dimentichiamo che la maggior parte dei detenuti calabresi ha meno di trent’anni, e che un giovane salvato è un manovale in meno per l’ndrangheta”. Ma senza la costituzione di una rete per lo scambio di esperienze, ed una formazione decentrata di tipo tecnico e conoscitivo delle varie tipologie di carcerati, non si va da nessuna parte, ha infine aggiunto Nasone.