Terza giornata del Reggio Calabria Film Fest

Calabria Tempo Libero

Continuano le proiezioni al teatro “Cilea” di riservate agli studenti delle scuole superiori. Ieri mattina infatti, gli studenti dell’i.t.e. “Piria” e dell’i.t.i.s. “Panella” hanno assistito alla proiezione de La siciliana ribelle. Il film, realizzato nel 2009 con la regia di Marco Amenta e l’interpretazione di Veronica D’Agostino, narra la storia realmente accaduta di Rita Atria: la prima testimone di giustizia del nostro Paese. La protagonista è figlia di Don Vito, boss di Partanna, ucciso dalla mafia nel 1985. Disperata per la scomparsa del padre, Rita ha deciso di vendicarne la morte e l'onore. Scoperto il mandante dell'efferato omicidio e trattenuta a stento dal fratello maggiore, Rita rimanda per sei anni la rappresaglia contro Don Salvo, il boss che ha ordinato l’omicidio del padre. Sei anni in cui osserverà e annoterà sui suoi diari ogni movimento dell'uomo e dei suoi scagnozzi. Ma la morte improvvisa del fratello, pugnalato barbaramente, la scopre sola e vulnerabile.

Minacciata dagli uomini di Don Salvo si reca a Palermo per denunciarli tutti al procuratore antimafia, Paolo Borsellino. Braccata dai mafiosi e protetta dallo stato, Rita smetterà di essere un'adolescente spensierata e scoprirà la differenza tra vendetta e giustizia. Il Procuratore antimafia diventa per lei una figura paterna, la prende sotto la sua protezione e la sostiene nel suo percorso. L’uccisione di Falcone prima, e quella di Borsellino poi, rappresentano per lei un profondo momento di abbandono e sconforto. Rita è sola, non ce la fa più a sopportare questo enorme peso e decide di togliersi la vita. Rita Atria muore suicida a Roma il 26 luglio del 1992, sette giorni dopo la Strage di Via D’Amelio. Subito dopo la proiezione è avvenuto il dibattito, moderato dall’avocato e criminologo Agostino Siviglia, con Antonella Crisafulli, sostituto procuratore di Reggio Calabria, e Manuela Iatì, giornalista e scrittrice. Il pm Crisafulli ha spiegato agli studenti la differenza che intercorre tra la figura del testimone e del collaboratore di giustizia. “Prima della legge del 2001 queste due figure non erano distinte. Con la nuova norma le differenze esistono e sono notevoli.

Il testimone di giustizia- ha affermato il sostituto è colui che denuncia all’autorità giudiziaria fatti illeciti, di cui è venuto a conoscenza, senza però esserne l’autore o il complice. Il collaboratore, ossia colui che viene chiamato comunemente pentito, denuncia alla magistratura, o alla polizia giudiziaria, fatti illeciti riconducibili alla sua diretta responsabilità. Il testimone è incolpevole; per questo credo che la scelta di divenire tale sia un duplice atto di coraggio”. Il sostituto Crisafulli ha fornito agli studenti alcune vicende processuali legate alle figure di Maria Concetta Cacciola, Lea Garofalo e Carmela Iuculano. “Sono tre storie molte diverse fra loro. Tre storie di tre diverse testimoni di giustizia. Maria Concetta Cacciola aveva trentun anni, viveva a Rosarno, era sposata e aveva tre figli. Il 20 agosto del 2011 si suicida ingerendo acido muriatico. Aveva iniziato a collaborare con la giustizia perché non ce la faceva più a vivere in quel contesto mafioso. Osteggiata dalla sua famiglia di origine per la scelta, lontano dai figli, un giorno decide di togliersi la vita. Lea Garofalo invece, chiede aiuto allo Stato perché non intende più vivere quella vita datagli dal marito, presunto boss, e con la figlia Denise viene inserita nel programma di protezione. La ‘ndrangheta la trova e la uccide. Carmela Iuculano invece, decide di affidarsi allo Stato per amore dei figli. I suoi figli infatti, le chiedono di andare via dalla Sicilia perché non intendono più essere additati come mafiosi. Lei e i figli sono ancora sotto protezione. Ciò che accomuna queste tre vicende è la solitudine.

Nei primi due casi l’abbandono, l’emarginazione, hanno influito nella vita, e nella morte, delle due testimoni. Concetta ha fatto proprio come Rita. Si è tolta la vita perché rimasta sola. Nel percorso del testimone di giustizia non è solo il magistrato ad accompagnarlo, ci deve essere anche la società. Non è il magistrato che insegue il testimone, o il collaboratore, ma piuttosto è lui che deve farsi trovare. È un travaglio per entrambi. Un giudice decide di sposare questo progetto dopo aver fatto gli appositi riscontri. Non basta denunciare, si deve anche indagare e questo riguarda soprattutto i pentiti. Collaborare con la giustizia non vuol dire assicurare l’impunità, ma è un nuovo percorso di vita che prima deve avvenire dentro di sé”. Anche la giornalista Iatì ha fornito agli studenti il racconto di alcune vicende incentrate sulla figura dei testimoni di giustizia e ha raccontato la vicenda di Anna Maria Scarfò. “Anna Maria- ha affermato la giornalista- è una ragazza originaria di San Martino di Taurianova.

All’età di 13 anni ha iniziato a subire violenze sessuali e persecuzioni varie da una serie di soggetti. Quando fu invitata a portare con sé anche la sorella Concetta , per farla partecipare a quegli squallidi incontri forzati, non ce l’ha fatta più e ha rotto il muro del silenzio. Ha denunciato anni di violenze. Chi ha abusato di lei è già stato condannato, ma attualmente è in corso un processo anche nei confronti di altri soggetti che per anni l’anno minacciata poiché aveva osato denunciare i crimini subiti. Anna Maria è stata soprannominata malanova che in dialetto calabrese è un’ingiuria pesante. Al posto di essere aiutata dai suoi compaesani è stata maltrattata e minacciata perché aveva avuto il coraggio di denunciare le violenze subite per anni. Anna Maria è stata costretta a lasciare la sua terra. Ragazzi non siamo noi che dobbiamo andare via, sono i mafiosi che devono lasciare la nostra terra. La Calabria è nostra, è vostra, non è la loro. Quando subite dei torti avete il diritto e il dovere di denunciare. Non potete consegnare agli altri il vostro futuro. La vicenda di Anna Maria Scarfò impone alla società una riflessione ben precisa. Si devono fare delle scelte. Non bisogna sempre andare a chiedere favori a qualcuno per ottenere ciò che ci spetta. Da soli dovete conquistarvi i vostri spazi. Chiedere favori- ha concluso infine Manuela Iatì- vuol dire autorizzare gli altri ad impossessarsi della vostra vita.