Operazione Califfo. I dettagli e i nomi degli arrestati

Reggio Calabria Cronaca

È stato un "pizzino", un biglietto scritto di suo pugno dal boss Francesco Pesce, 34 anni, detto "Testuni", dopo il suo arresto avvenuto il 9 agosto scorso, a consentire ai carabinieri di ricostruire il nuovo organigramma del clan pesce di Rosarno, uno dei più temuti e potenti della 'ndrangheta. Francesco Pesce aveva tentato di far filtrare dal carcere in cui era rinchiuso uno scritto con le sue disposizioni in merito alla reggenza della cosca in suo assenza, indicando le "investiture" al vertice dell'organizzazione criminale. Ma quel "pizzino", intercettato dagli inquirenti, unito alle dichiarazioni di Giuseppina Pesce, donna del clan da tempo collaboratrice di giustizia, ed a quelle della testimone Maria Concetta Cacciola, ha consentito ai Carabinieri di ricostruire le nuove gerarchie della cosca e di colpire al cuore la 'ndrina, con gli undici fermi eseguiti stamane con l'operazione denominata "Califfo". I militari hanno eseguito due distinti provvedimenti adottati a seguito di indagini coordinate dalla DDA di Reggio Calabria e dalla Procura della Repubblica di Palmi, rispettivamente condotte dal Ros, dal Nucleo investigativo dei carabinieri di Reggio Calabria e dalla Compagnia Carabinieri di Gioia Tauro con il Commissariato di Polizia dello stesso centro del reggino.

Il provvedimento della DDA di Reggio Calabria dispone il fermo di colui il quale è considerato il nuovo reggente della cosca Giuseppe Pesce (latitante dall'aprile 2010) e di 10 affiliati: Giuseppe Alviano; Giovanni Luca Berrica; Danilo D'amico; Biagio Delmiro; Domenico Fortugno; Saverio Marafioti; Rocco Messina; Francescantonio Muzzupappa; Giuseppe Rao; Francesco Antonio Tocco. Per tutti, secondo quanto emerso, il boss arrestato aveva individuato compiti e ruoli. Le attività investigative condotte dai Carabinieri e coordinate dalla Dda reggina si fondano su molteplici elementi di prova convergenti, secondo le accuse, su un unica constatazione: la partecipazione di tutti gli indagati all'attività della cosca. La sera del 9 agosto 2011, Francesco Pesce fu catturato dopo un anno e mezzo di latitanza. Il giovane boss aveva trovato rifugio in un bunker costruito all'interno della "Demolsud" di Antonio Pronestì, arrestato in quel frangente per il reato di favoreggiamento personale aggravato. La sera dell'11 agosto, Pesce tentò di consegnare ad un altro detenuto rosarnese un biglietto manoscritto che la Polizia Penitenziaria della casa Circondariale di Palmi riuscì ad intercettare e sequestrare.

Il testo del biglietto scritto dal giovane boss poteva essere ripartito in quattro sezioni corrispondenti ad altrettante direttive sulla gestione del gruppo criminale. Francesco Pesce, cosciente di dover scontare vari anni di regime detentivo, accreditava dal punto di vista criminale l'unico maschio libero della sua famiglia, il fratello Giuseppe, latitante, al quale cedeva il comando della cosca con una precisa indicazione in codice: "fiore per mio fratello", affiancandogli una 'ndrina di sei fidatissimi 'ndranghetisti tutti accomunati da legami parentali o storica amicizia col boss, identificati in Messina, Alviano (detto "u rospu"), Muzzupappa, Tocco, D'Amico e Daniele. Il boss disponeva inoltre l'assegnazione di somme di danaro e benefici a persone a lui vicine.

Maltrattamenti, minacce pressioni da parte dei familiari affinché ritrattasse quanto aveva dichiarato ai magistrati: Maria Concetta Cacciolla, testimone di giustizia morta il 20 agosto scorso all'ospedale di Polistena, per avere ingerito dell'acido muriatico, sarebbe stata spinta al suicidio dai sui familiari. Carabinieri e Polizia, nell'ambito dell'operazione "Califfo", hanno arrestato padre, figlio e madre della vittima: Michele Cacciola, Giuseppe Cacciola, ed Anna Rosalba Lazzaro. Sono accusati di concorso in maltrattamenti in famiglia e di violenza o minaccia per costringere a commettere un reato.

Nel mese di maggio 2011, secondo quanto emerso, Maria Concetta Cacciola si era si presentata spontaneamente ai Carabinieri di Rosarno, dichiarando di voler collaborare con la Giustizia e di poter riferire circostanze utili su diversi fatti di sangue riconducibili alle cosche Cacciola e Bellocco. Il25 maggio 2011, la donna rese dichiarazioni ai magistrati della Dda, confermando la posizione della famiglia di appartenenza nel contesto mafioso rosarnese ed il 20 luglio 2011 le fu concesso il programma provvisorio di protezione.

Le attività d'intercettazione, svolta sia nei riguardi della testimone di giustizia sia dei suoi stretti congiunti, avrebbe confermato non solo l'attendibilità delle dichiarazioni rese, ma anche le continue pressioni che la donna subiva dai familiari, con i quali era rimasta clandestinamente in contatto. Il 9 agosto 2011, la donna, pur consapevole che il rientro l'avrebbe esposta al rischio di essere uccisa, tornò nella casa di Rosarno. Il 17 agosto successivo, la donna contattò telefonicamente i Carabinieri dichiarandosi pronta a continuare a collaborare, ma rifiutando un immediato rientro in una località protetta. L'attività di riscontro svolta dall'arma dei Carabinieri sul contenuto delle dichiarazioni della testimone di giustizia avrebbe confermato l'attendibilità di quanto da lei sostenuto dalla donna dinanzi ai magistrati della Dda reggina. Infatti, a seguito delle indicazioni fornite dalla teste, il 16 giugno 2011 furono o sequestrati due bunker nella disponibilità delle famiglie Bellocco-Cacciola. Inoltre, sempre grazie alla testimone era stato delineato un primo quadro indiziario a carico di Saverio Marafioti, muratore "di fiducia" per l'edificazione di bunker per conto della cosca Bellocco.