La “rinascita” dei Pesce tra nuove leve, il “listino” sulle estorsioni e il business della Gdo

Reggio Calabria Cronaca

Due distinte operazioni scattate alle prime luci dell’alba e che hanno portato all’arresto di 53 persone, 44 quelle finite in carcere e 9 quelle sottoposte ai domiciliari.

Sono indagate a vario titolo di associazione mafiosa, detenzione, porto e ricettazione illegale di armi, estorsioni, favoreggiamento; traffico, detenzione e cessione di stupefacenti, il tutto aggravato dall’agevolazione mafiosa.

È il bilancio dell’operazione Handover, condotta dalla Squadra Mobile, e della Pecunia Olet, eseguito invece dai Ros e dal Gico di Reggio Calabria (QUI IL VIDEO).

Due blitz coordinati dalla Direzione Distrettuale Antimafia, diretta dal procuratore Giovanni Bombardieri, che hanno visto impegnate la Mobile reggina ed il Servizio Centrale Operativo, il Ros dei Carabinieri ed il Gico della Guardia di Finanza del capoluogo, col supporto dello Scico.

Obiettivo sono stati i diversi appartenenti al clan Pesce di Rosarno, ampiamente ramificati sul territorio ma anche nel resto d’Italia ed all’estero.

L’INDAGINE HANDOVER

L’operazione di questa mattina inizia dopo un’altra del 2017, la Recherche (QUI), che “decapitòvertici, affiliati e prestanome del clan rosarnese, e destinata allora alla ricerca ed alla cattura di Antonino Pesce, poi arrestato un anno dopo (QUI).

In quell’occasione, la Squadra Mobile riuscì a identificare il “sistema” di fiancheggiatori che riuscì a favorire la latitanza del 29enne figlio di “u Paccio” - al secolo Vincenzo Pesce, boss della cosca - senza mai fargli abbandonare il territorio, e scoprendo anche diversi particolari sulla gestione criminale.

Dall’inchiesta emerse infatti il duro colpo subito dal sodalizio a seguito dei diversi arresti di esponenti storici, ma anche la rapida capacità riorganizzativa che ha consentito al clan di rigenerarsi e riprendere il controllo di tutti i settori d’interesse.

In accordo con altri gruppi ‘ndranghetisti, come i Bellocco di Rosarno ed i Piromalli di Gioia Tauro, i Pesce riuscirono infatti a rimettersi in piedi ed a proseguire nelle varie attività, dal controllo degli appalti al crimine da strada, dallo spaccio alle intimidazioni, dal “sistema della guardiania” per ottenere il pizzo, all’intercettazione di lavori pubblici.

Di primario interesse anche la riscossione di ingenti somme di denaro per finanziare le famiglie appartenenti alla cosca, in particolar modo quelle dei sodali detenuti e latitanti.

Gli inquirenti hanno addirittura scoperto un vero e proprio “listino” (QUI) di somme da riscuotere periodicamente, ai danni evidentemente di imprenditori, commercianti ed agricoltori.

Una ingente “cassa comune” alla quale si sarebbero sommati i profitti derivanti dall’interesse della cosca sui lavori pubblici, in particolar modo nel comune di San Ferdinando e nell’area portuale di Gioia Tauro.

Tredici i soggetti che sono così accusati di associazione mafiosa di vario grado, mentre agli altri tredici si contesta di aver preso parte all’attività di spaccio, a vario titolo.

Non mancano accuse che vanno dall’estorsione, compiuta o tentata, a danno di privati cittadini, o la detenzione clandestina di armi da guerra, come fucili d’assalto kalashnikov e mitragliatori P40 ed M12-S.

LA PECUNIA OLET

È sempre da collegare al clan Pesce, poi, la seconda di operazione, quella coordinata dai Carabinieri e dalla Guardia di Finanza, che sarebbero riusciti a svelare un particolare intreccio tra un gruppo imprenditoriale siciliano con mire espansionistiche in Calabria, e per questo in particolare contatto proprio con alcuni esponenti della cosca rosarnese.

Anche in questo caso l’intervento nasce da una precedente operazione, la “All Inside” del 2010 (QUI), e nel corso della quale si appurò la creazione di un cartello tra i Pesce ed i Bellocco per controllare la distribuzione delle merci di alcuni supermercati nella Piana di Gioia Tauro.

L’attività di oggi avrebbe messo in luce l’esistenza di strette relazioni tra i Pesce ed un gruppo imprenditoriale siciliano che si occupa appunto di grande distribuzione organizzata di generi alimentari, e che avrebbe palesato la volontà di espandersi in Calabria.

A questo proposito, il gruppo si sarebbe rivolto proprio ai Pesce, che avrebbero dovuto gestire con il proprio potere mafioso l’intero iter della filiera sul territorio.

Secondo quanto appurato, il sodalizio sarebbe valso a realizzare 14 centri differenti in tutta la regione, tra punti di smistamento merce, punti vendita e di gestione indiretta, tra il 2009 ed il 2014, anno di maggiore espansione della holding criminale.

Questa sarebbe così riuscita a svolgere tutte le operazioni in piena legalità, grazie a ditte di autotrasporti non collegate direttamente al disegno criminale.

Gli stessi imprenditori siciliani, pur avendo ottenuto il vantaggio dei Pesce, versavano regolarmente somme di denaro alle altre famiglie dei territori dove operavano, come quella dei Cacciola, così di poter agire “in tranquillità”.

Fulcro di tutto il sistema si ritiene sia stato un commercialista di Rosarno, che avrebbe accuratamente omesso ed occultato il patrimonio accumulato illecitamente mettendolo a disposizione della cosca.

Lo stesso professionista risulterebbe più volte coinvolto in azioni riconducibili alla cosca, essendo dunque “profondamente inserito nel contesto ‘ndraghetistico rosarnese” al punto da assumere il ruolo di referente.

Secondo quanto appurato, il commercialista avrebbe assunto anche la posizione di garante degli interessi del clan, svolgendo un ruolo di prim’ordine in tutta la vicenda: avrebbe individuato i locali e le imprese da ingaggiare, provvedendo a riscuotere direttamente parte dei proventi estortivi, e mediando tra imprenditori e cosche per evitare problematiche nel “sistema”.

Oltre ad aver messo pienamente a disposizione il suo studio anche per incontri informali con elementi di spicco del vertice criminale, si sarebbe interfacciato in maniera diretta con la holding siciliana, verificando “l’idoneità” dei soggetti e curandone gli interessi.

Al termine dell’indagine sono stati effettuati, oltre ai 53 arresti, anche diversi sequestri. Interessate tre società con sede a Rosarno, del valore complessivo di oltre 8,5 milioni di euro.