L’associazione Marco Polo sui recenti episodi di aggressione razzista

Crotone Attualità

"Due aggressioni razziste in pochi giorni. Entrambe nelle Marche: a San Benedetto del Tronto ed a Fermo. Le vittime sono cittadini di origine straniera. Gli aggressori sono italiani, di giovane età, stando alle testimonianze". E' quanto scrive il Presidente dell'associazione Marco Polo, Rosario Villirillo.

"Emmanuel, cittadino nigeriano di 36 anni - continua la nota - è stato aggredito nel primo pomeriggio del 5 luglio mentre passeggiava con la compagna, nel centro cittadino di Fermo. “Scimmia africana”, avrebbero urlato due uomini alla donna, strattonandola e lanciandole altre offese razziste. Emmanuel avrebbe reagito: ne sarebbe scaturita una rissa. L’uomo sarebbe stato colpito più volte, anche con un paletto della segnaletica stradale e, una volta a terra, picchiato ripetutamente. Soccorso dalle forze dell’ordine e dall’ambulanza, purtroppo, per Emmanuel non c’è stato nulla da fare. Resta solo la speranza che questo ennesimo omicidio razzista sia punito.

A San Benedetto del Tronto, in provincia di Ascoli Piceno, lo scorso 3 luglio, due cittadini del Bangladesh sono stati insultati e picchiati da un gruppo di giovani italiani. Il tutto davanti alle tante persone presenti sul lungomare di Porto d’Ascoli, dove le due vittime stavano vendendo merci. “Non conoscete i versi del Vangelo”, avrebbero affermato gli aggressori, dopo aver rivolto alcune domande alle vittime. Poi calci e pugni. L’intervento di alcuni testimoni, mentre altri chiamavano le forze dell’ordine, avrebbe messo in fuga gli aggressori, ma anche le vittime. È questo un elemento che dovrebbe indurre ad una seria riflessione sulla vulnerabilità di molte persone, costrette, come in questo caso, a subire intimidazioni in silenzio, spesso a causa di problemi legati ai documenti di soggiorno.

“L’Italia non è un paese razzista”. Lo abbiamo sentito dire tantissime volte, soprattutto durante gli scorsi anni. Perché, invece, nell’ultimo periodo, non sembra più così assurdo ascoltare frasi apertamente razziste o notare atteggiamenti che non fanno mistero di essere dichiaratamente discriminatori. I dati parlano chiaro: 56 nel 2010, 472 nel 2013, 596 nel 2014. Sono i casi di crimini d’odio in Italia, secondo i dati diffusi da Odihr nei suoi dossier più recenti. Dei 596 reati del 2014, 413 hanno avuto un movente razzista, 153 religioso, 27 legato all’orientamento sessuale, 3 alla disabilità.

Tra il settembre 2010 ed il novembre 2014 - continua la nota - l’OSCAD (Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori, organismo interforze tra Polizia di Stato ed Arma dei Carabinieri) ha ricevuto 1.187 segnalazioni, delle quali 583 sono state riconosciute come reati di odio. Tra questi, il 61.4% ha avuto una matrice razzista ed il 19.8% religiosa. Secondo quanto riportato nel “Rapporto Ecri 2016”, le statistiche della polizia giudiziaria riportano un totale di 123 indagini aperte nel 2012 e di 130 nel 2013, riferite alle violazioni della legge

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Mancino e della legge n. 654/75. Dal 2006 al 2013 l’Unar ha preso in carico oltre 3.000 casi di discriminazione a sfondo razzista, etnico e religioso. Dai 143 casi del 2006 si è passati ai 763 del 2013 (ultimo anno per cui i dati sono disponibili). Questi i dati ufficiali, ai quali si assommano le informazioni raccolte dalla cosiddetta società civile: sono infatti diverse le associazioni che provano a monitorare il razzismo e la sua diffusione nel nostro Paese.

Sulla base dei dati raccolti, Lunaria ha segnalato a Odihr per il 2015 173 casi: 2 casi di omicidio e tentato omicidio; 32 casi di violenza fisica contro le persone; 55 casi tra danni alla proprietà, furti, rapine, incendi dolosi; 7 casi di vandalismo e di profanazione di tombe; 77 casi di minacce o atteggiamenti minacciosi. Dei 732 casi registrati nel database disponibile online per l’anno 2015, sono 615 quelli di violenza verbale.

Tanto i dati ufficiali quanto quelli registrati dalle associazioni risentono del fatto che sono ancora poche le persone che denunciano. Under reporting, si dice in inglese. Tradotto nella pratica, significa che le denunce e conseguentemente i dati disponibili non rappresentano la situazione reale, che non trova riscontro nelle statistiche.

Perché le persone non denunciano? Per paura di ritorsioni, certo: il che segnala la mancanza di tutela per le vittime. Oppure per sfiducia o timore delle forze dell’ordine da parte delle vittime. E poi ci sono i cosiddetti elementi di contesto: ossia un humus culturale, sociale e politico sempre più ostile nei confronti dei migranti e di alcune minoranze. Nonostante la parzialità dei dati, il quadro che emerge è preoccupante: e lo è da anni, non da oggi. Tutte le fonti disponibili documentano una crescita preoccupante dei delitti e dei discorsi razzisti in Italia.

Sulla scorta di quanto anzidetto, come associazione – impegnata da anni nella tutela dei diritti – non abbiamo alcuna remora nel sostenere che, senza se e senza ma, l’Italia è un paese dove il razzismo è purtroppo radicato ed fa parte di una cultura diffusa che spesso viene strumentalizzata da movimenti e forze politiche per raccogliere facili consensi. Premesso ciò, bisogna comprendere in che senso il “Bel Paese” possa essere definito tale.

L’Italia è razzista da un punto di vista istituzionale, il che significa che esiste un razzismo individuale che si palesa con atti discriminatori o violenti. È un razzismo di sistema, nascosto tra le pieghe di leggi ed istituzioni che pervadono la vita pubblica.

Essere vittima di razzismo non vuole dire soltanto avere meno diritti e risorse, non significa necessariamente essere destinatario di violenze e insulti, significa anche essere inchiavistellati in identità rigide, costretti a recitare ruoli che non si possono negoziare.

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L’identità razziale, al contrario di identità più fluide ed ariose, circoscrive le sue vittime in un perimetro angusto. Alla vittima di razzismo identitario è come se la società dicesse: «non mi importa delle tue idee politiche, delle scuole che hai fatto, non mi interessa di chi sei innamorato o che genere di film ti piacciono, se sei un extra-comunitario, non sei altro che tale e sei come tutti gli altri extracomunitari». Chi viene catturato da un’identità razzializzata, rischia di modellarsi su di essa o di soffocarci dentro.

E, dal momento che la nazionalità è percepita non più come uno status determinato da leggi ma come una razza data dalla natura, anche quando la persona – dopo lunghe e penose traversie – acquista la cittadinanza, la stessa persona continua ad essere considerata ed a considerarsi “straniero”.

Accade così che persone provenienti da ogni angolo del pianeta, con le più disparate storie di vita, idee ed aspirazioni, si ritrovino costrette in gabbie identitarie forgiate da istituzioni, media e pubblica opinione.

A tale proposito è utile muovere un rimprovero a molti immigrati o addirittura ai figli di migranti (seconda/terza generazione) che si definiscono “stranieri”, non realizzando che l’immigrato è di fatto un cittadino del paese che ha scelto, che sentirsi cittadini significa sentirsi parte attiva ed integrante della comunità in cui si vive e non comporta né una rinuncia né un tradimento a nessuna delle componenti che costituiscono la propria unica e variegata miscela identitaria.

Il razzismo istituzionale, come il malaffare o la corruzione, è un male sistemico, pertanto non basta identificare e reprimere il singolo razzista o corrotto per risolvere il problema, poiché vi è un terreno di coltura che permette una rapida riproduzione di atti e individui corrotti e razzisti. Come, in effetti, spiega il celebre psicologo sociale Philip Zimbardo, la migliore soluzione per garantire un successo di lungo termine nel contrasto ai mali di sistema non è quella di espellere le “mele marce”, bensì bisogna riparare il “cattivo cestino” che fa marcire le mele.

Ci rendiamo, pertanto, perfettamente conto che parlare di responsabilità del sistema può destare resistenze, perché alcuni potrebbero pensare che, in questo modo, si alleggerisce la coscienza dei razzisti, del malaffare o dei corrotti. Ma adottare una prospettiva sistemica non legittima l’argomento: “tutti colpevoli, quindi, nessuno”. Addirittura, auspichiamo un accrescimento della responsabilità individuale, non già solo delle mele marce, ma anche degli architetti di sistema, di coloro che hanno intrecciato i cattivi cestini e così hanno favorito il costituirsi di situazioni esplosive o degradanti, vedi il modo con cui è stato condotto l’arrivo dei migranti a Lampedusa in seguito alla “primavera araba”. E, inoltre, un

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po’ di responsabilità ricade anche su coloro che hanno votato o legittimato gli architetti di sistemi disfunzionali.

Il che significa tre cose:

1. Vi sono norme che negano il godimento di diversi diritti alla popolazione immigrata ed ai loro figli: ad esempio, gli stranieri residenti sul territorio non hanno diritto di voto, pur contribuendo allo sviluppo del Paese, lavorando e pagando le tasse quanto e più dei titolari di cittadinanza (dato che ci sono una serie di balzelli esclusivi per stranieri). Come le donne prima del suffragio universale, gli immigrati sono governati senza essere governanti e ciò contrasta con il principio base della democrazia e dell’uguaglianza sostanziale. Per non parlare poi di coloro che non hanno il permesso di soggiorno, agli irregolari sono di fatto negati gran parte dei fondamentali diritti umani.

2. Vi sono poi politiche che costruiscono ed enfatizzano le disuguaglianze, ad esempio l’invenzione dei “campi rom”. Al contrario di come si pensa, questi luoghi di segregazione e degrado non sono espressione di uno stile abitativo proprio della cultura zingara, ma sono il frutto di un’ideazione istituzionale italiana imposta e non scelta dalla popolazione rom, che ha avuto l’effetto di acuirne il disagio e la marginalizzazione.

3. Infine, vi è un consenso popolare a norme e politiche razziste. Infatti, sebbene la maggior parte degli Italiani non creda nell’ideologia della superiorità razziale e sia pronta a condannare atti individuali di violenza a sfondo razzista, sovente reclama ed avvalla leggi e politiche discriminatorie nei confronti della popolazione migrante.

Va sottolineato, altresì, che la questione meridionale ha numerosi punti di contatto con la questione immigrazione. In primo luogo il “razzismo interno” verso i meridionali nasce dal fatto che i cosiddetti “terroni” erano migranti nelle regioni settentrionali, percepiti come invasori straccioni, predatori delle risorse locali e criminali dagli istinti più bassi e temibili. Pertanto il repertorio di cliché contro gli immigrati del Sud Italia è stato riciclato contro gli immigrati dal Sud del mondo.

Ma la somiglianza e la contiguità storica non si limitano a questo. Il razzismo verso il Meridione è stato anche istituzionale: determinate norme e politiche hanno consolidato ed accresciuto il divario tra Nord e Sud, producendo conseguenze nefaste sull’intero Paese. Infatti, gli effetti dell’esclusione sociale non riguardano solo gli esclusi. Quando una parte resta indietro, tutti poi ne pagano le conseguenze. Una forte disparità sociale aumenta la devianza, ostacola lo sviluppo, richiede maggiore spesa sociale. Occorre, pertanto, stare ben attenti a non insistere nell’errore, evitare che gli immigrati ed i loro discendenti si

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trasformino in un nuovo Meridione, cioè una parte di popolazione lasciata indietro che poi pesa su tutti.

Si badi, però, che i problemi del Mezzogiorno, come quelli della popolazione di origine straniera, non dipendono esclusivamente dal fatto che al Sud o ai migranti sono state indirizzate poche risorse, al contrario a volte le risorse sono state anche troppe, ma utilizzate in chiave assistenziale e clientelare. Il risultato è che in parecchi casi i fondi stanziati per gli interventi umanitari – per i poveri autoctoni, per il Sud o per gli immigrati – si traducono in occasioni per assegnare fondi pubblici ad enti amici dei potenti. Le risorse così impiegate non servono a colmare il divario, a promuovere inclusione, impegno e cittadinanza, ma si traducono in una carità istituzionale che premia i servili dei potenti ed i collusi, alimentando nella popolazione “beneficiata” l’apatia civica e politica, il senso di impotenza, la dipendenza, l’attesa di un munifico protettore che aiutandoti ti spegne.

Martin Luther King ebbe a dire una volta: “Abbiamo imparato a volare come gli uccelli, a nuotare come i pesci, ma non abbiamo ancora imparato l’arte del vivere come fratelli". Nel presente siamo riusciti a fare di tutto: volare, andare nello spazio, nei fondali marini, ma non abbiamo ancora appreso come amarci l’un l’altro. La scienza riesce a curare molte malattie, trapiantare organi, anche quelli vitali, ma l’uomo ancora non è riuscito a guarire l’intolleranza verso l’altro. Alcune persone considerano diversi altri esseri umani solo per il colore della pelle, per la lingua o la religione. L’intolleranza verso gli altri si manifesta sia tra persone di diverse nazioni che tra connazionali. Dovremo, quindi, abituarci, in un modo o nell'altro, a considerare il colore della pelle delle persone con la medesima naturalezza con cui ne osserviamo il colore dei capelli. Non poche mamme vedono male un bambino di colore nella stessa classe del loro figliolo, quasi nessun genitore sarebbe disposto ad avallare un matrimonio misto, mentre molti maschi di razza bianca usufruiscono delle prostitute e, perfino, dei transessuali di colore. Non è il razzismo, inteso nel senso puro del termine, cioè odio incondizionato verso una “razza”, ciò che impedisce la convivenza o il matrimonio tra neri e bianchi in Italia, quanto invece il timore che una simile unione possa incontrare infinite difficoltà in una società che ideologicamente è ancora molta retrograda ed intollerante all’inclusione sociale!".